Le ministre svedesi “femministe” con il chador davanti agli ayatollah
Attaccano Donald Trump ma poi diventano remissive e relativiste appena atterrano a Teheran
Roma. Lo scorso 20 gennaio, mentre alla Casa Bianca Donald Trump firmava il suo primo executive order attorniato da soli uomini, la vicepremier svedese Isabella Lövin si faceva fotografare mentre, seduta alla scrivania, penna in mano, firmava un provvedimento sul clima al fianco di sette ministre donne, di cui una visibilmente incinta. “Siamo un governo femminista e questa foto lo dimostra”, aveva annunciato la vicepremier. Stoccolma si è candidata, infatti, a diventare l’alternativa umanitaria e femminista.
Nel 2014 il premier svedese, Stefan Löfven, aveva formato un governo di coalizione tra il suo Partito socialdemocratico e i Verdi della Lövin, e da allora la Svezia ha rivendicato di essere il primo “governo femminista” al mondo. Tranne quando una folta delegazione svedese si reca in Iran. Il ministro del Commercio svedese, Ann Linde, e altri dieci membri di sesso femminile del governo Löfven hanno sfilato di fronte al presidente iraniano Hassan Rohani indossando hijab, chador, e cappotti lunghi, in ossequio alle leggi di “modestia” oppressive e ingiuste che in Iran rendono obbligatorio il velo islamico. Questo nonostante la promessa di Stoccolma di promuovere “una prospettiva di genere a livello internazionale” e di adottare una “politica estera femminista” in cui “la parità tra donne e uomini è un obiettivo fondamentale”.
In tal modo, le femministe al potere in Svezia hanno ignorato il recente appello dell’attivista dei diritti delle donne iraniane Masih Alinejad, che aveva invitato i governanti europei a rifiutarsi di piegarsi al velo islamico (a difesa delle svedesi va detto che sono in tante le donne al potere che sfoggiano il velo a Teheran). Alinejad aveva creato una pagina Facebook per invitare le donne iraniane a resistere alla legge e a mostrare i loro capelli come un atto di resistenza, raccogliendo un milione di seguaci. “I politici europei sono ipocriti”, ha detto Alinejad. “Condannano il bando francese del burkini perché pensano che quella costrizione sia sbagliata, ma quando succede in Iran, hanno solo a cuore i soldi”. Gli svedesi, infatti, erano in Iran per firmare un bel po’ di contratti e appalti. “Se la Svezia ha veramente a cuore i diritti umani, non dovrebbe legittimare un regime che brutalizza i propri cittadini, e se si preoccupasse dei diritti delle donne i ministri di sesso femminile non avrebbero mai avallato la misogina dell’Iran”, ha detto il direttore di Un Watch Hillel Neuer.
Di fronte agli attacchi del leader dei liberali Jan Björklund al tabloid svedese Aftonbladet, Ann Linde si è difesa affermando che non era disposta a violare la legge iraniana, che rende obbligatorio per le donne indossare il copricapo in pubblico da quando c’è stata la rivoluzione islamica del 1979. Eppure, c’era un precedente di leader europea femminista che si è rifiutata di cedere al ricatto dell’islamismo. Si tratta della ministra tedesca della Difesa, Ursula von der Leyen, che un mese fa, in visita in Arabia Saudita, non si è soltanto rifiutata di indossare il velo, ma anche l’abaya, il tipico abito lungo, optando invece per pantaloni e giacca.
Ursula von der Leyen si è dimostrata più coraggiosa delle femministe al potere in Svezia, pronte a far valere le questioni di principio quando ci sono in gioco l’imene e i capelli delle donne occidentali o i costumi da bagno in Costa Azzurra, ma remissive e prontamente relativiste non appena atterrano a Teheran.