Così il mondo della pubblicità su internet finanzia la guerra dello Stato islamico
Banner di automobili e supermercati compaiono in apertura dei video dei terroristi. Gli stessi che vogliono distruggere la società consumistica dell’occidente. Un paradosso macabro
Il legame tra web ed estremismo islamico è cosa nota da tempo. I jihadisti hanno saputo sfruttare gli strumenti digitali per ogni sorta di attività, dall’organizzazione di attentati al cyberterrorismo, dal reclutamento al proselitismo. Non solo, i terroristi hanno iniziato a impiegare metodi innovativi anche per la raccolta dei fondi necessari per finanziare la propria guerra. E’ quanto emerge da un’inchiesta di Alexi Mostrous pubblicata dal Times, che ha evidenziato come lo Stato islamico, al Shabaab e altri utilizzino le pubblicità di marchi celebri per ottenere denaro dai click sui loro video di propaganda. Il paradosso è come la maggior parte dei brand coinvolti, che hanno prontamente rimosso gli spot dalle url incriminate, pubblicizzino proprio quello lo stile di vita occidentale che i terroristi vorrebbero distruggere. Ci sono le automobili, Jaguar Land Rover, Honda e Mercedes. Le campagne per il nuovo SUV della casa britannica e la Classe E del gigante di Stoccarda precedevano un filmato propagandistico dello Stato islamico che ha ottenuto 115 mila visualizzazioni. Figurano i supermercati più posh del Regno Unito, come Waitrose e i resort di lusso nei Caraibi di Sandals. Sono immischiati, a loro insaputa, anche istituti culturali e fondazioni: l’Università di Liverpool, il Victoria & Albert Museum di Londra e l’ong che sostiene i malati terminali, Marie Curie. Già nel 2016 il Financial Times aveva rilevato come gli islamisti radicali stessero utilizzando servizi pubblicitari di Google per guadagnare dagli accessi sui propri siti.
A finire sotto accusa sono le agenzie pubblicitarie, che hanno piazzato indiscriminatamente le pubblicità per incrementare le proprie entrate. Mostrous ha calcolato che gli estremisti incassano decine di migliaia di sterline ogni mese, considerato il numero di visualizzazioni dei propri video e che ogni migliaio di click gli permette di incassare circa 7 euro. Ma le agenzie sono in una botte di ferro: la sola reputazione messa a repentaglio è quella dei brand pubblicizzati e loro, a prescindere dal successo delle campagne pubblicitarie, ottengono una grossa fetta di profitto. Dalla pornografia ai disastri aerei, sono molti i casi in cui una réclame può fare più male che bene.
Al centro dell’inchiesta del Times non figurano solo i terroristi islamici: Halifax Bank, Honda e Thomson Reuters hanno visto comparire il proprio logo anche sul sito del gruppo neonazista “Combat 18”.
Se è contraddittoria la strizzata d’occhio alla borghesia capitalista occidentale da parte di chi vorrebbe distruggerla (ma non è una novità), è inverosimile anche il silenzio di chi si erge a paladino della giustizia nel mondo dell’informazione e del marketing. Nemmeno un sussurro dai promotori dei boicottaggi contro Israele che affollano le università e le élites culturali britanniche. Nemmeno un tweet da “Stop funding hate”, la campagna che invita al boicottaggio verso i tabloid (Daily Mail, Sun e Daily Express) che “fomentano l’odio”. E in questo silenzio imbarazzato e imbarazzante, gli unici a rallegrarsi sono i terroristi islamici.