Dilemma russo: quanto ci guadagna Putin se Trump è considerato “l'uomo di Mosca”?
Deluso dalla sortita di Trump sulla Crimea, il Cremlino prova a capire se l’affare Flynn è conveniente o no
Milano. La delusione è palpabile. “Abbiamo deciso troppo avventatamente che il presidente Trump sia in qualche modo filorusso. Ma anche se la sua retorica costruttiva aveva suscitato indubbiamente la nostra simpatia, lui è filoamericano”, dice il presidente del comitato Affari esteri della Duma, Leonid Slutsky, riassumendo l’amarezza di Mosca nei confronti della Casa Bianca. Dalla quale è appena arrivato un monito pesantissimo a “restituire la Crimea” all’Ucraina, accompagnato da un tweet del presidente americano che si chiede se Obama “sia stato troppo soft con la Russia” quando Mosca ha “PRESO” (le maiuscole sono di The Donald) la penisola nel 2014. Che l’enfasi sia più sugli errori del predecessore che sull’espansionismo putiniano, e che la durezza sia funzionale a deviare l’attenzione dai contatti troppo ravvicinati dell’ex consigliere per la Sicurezza Michael Flynn con l’ambasciatore russo a Washington, non addolcisce la pillola. “Non restituiamo i nostri territori”, replica gelida la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, e l’addetto stampa del Cremlino Dmitri Peskov conferma che la restituzione della Crimea a Kiev “non è un argomento in discussione”.
A gennaio, per la prima volta nella storia, Putin non è stato il politico più menzionato dai media russi, cedendo il primato al collega americano, in quella che Peskov aveva definito “una euforia difficilmente spiegabile”. Le aperture di credito che Putin ha concesso a Trump sono notevoli: dalla rinuncia alla rappresaglia per le sanzioni alle voci sull’estradizione di Edward Snowden, alla decisione di non imbarazzare Trump nei primi colloqui con la Crimea e le sanzioni, i due dossier cruciali per la Russia, molto più della Siria.
Putin ha anche scelto di ignorare alcune uscite piuttosto dure dei membri della nuova Amministrazione americana, e di glissare su gesti di Trump che avrebbero potuto mettere Mosca in imbarazzo con gli alleati, dalla Cina all’Iran. Un atteggiamento insolito per un leader che ha costruito tutta la sua politica e propaganda sulla sfida alla prepotenza dell’America. Una partita da stratega dell’ex Kgb, secondo il commentatore di Bloomberg Leonid Bershidsky, in cui Putin avrebbe preferito non aspettarsi favori immediati, e di scommettere sugli effetti a lungo termine di Trump, “con il ridimensionamento sia dell’autorità morale degli Stati Uniti sia del loro appetito a interferire negli affari di paesi remoti”. Un’America isolazionista che fa gli interessi della Russia, permettendo a Putin di “godere tutti i benefici senza doverne pagare il prezzo”. Con in più il bonus dell’autostima: il ritorno del vecchio tormentone “arrivano i russi” nella politica americana paradossalmente soddisfa i desideri dell’opinione pubblica di Mosca, restituendo la perduta sensazione di contare nella politica mondiale. Anche se non sono stati i russi a far eleggere Trump, ai russi piace che il mondo lo creda.
Il problema però è che i terreni di scontro potenziali sono tanti – dall’Iran e la Cina, appunto, al petrolio, al riarmo americano che Trump ha già promesso – mentre le promesse “filorusse” del nuovo presidente americano (inclusa l’allusione a un possibile riconoscimento della Crimea annessa, in campagna elettorale) appaiono soggette a repentini cambiamenti. La famosa imprevedibilità di The Donald, temuta da molti diplomatici russi, potrebbe diventare un boomerang, se dopo lo scandalo Flynn decidesse di prendere le distanze dalla reputazione di “uomo di Mosca” con un improvviso affondo contro il Cremlino. Per l’establishment putiniano nulla potrebbe essere più comodo che tornare alla collaudata retorica antiamericana. Potrebbe però non bastare per superare lo scoglio elettorale del 2018, con l’economia ancora in panne e le risorse per le guerre sempre più limitate. Il vero trionfo di Putin sarebbe stato un presidente americano con il quale lanciare un nuovo “reset”, mostrando che ha avuto la meglio nella Guerra fredda 2.0. Ma a differenza degli storici vertici tra Gorbaciov e Reagan, Putin e Trump non hanno una grande agenda in comune, mentre il binomio “Trump-russi”, scrive Foreign Policy, “limita drasticamente lo spazio di manovre geopolitiche” di Mosca: il legame con il Cremlino appare per ora il punto vulnerabile più immediato del presidente americano, e Putin rischia di diventare “ostaggio della sopravvivenza e del successo” di The Donald.