Moscovici e lo strano caso dell'europeismo francese (vedi le elezioni)
Perché il commissario europeo per gli Affari economici fa parte del coro di leader europei che tentano di trasformare la crisi dell’Ue in una opportunità di rilancio che serva a contenere le forze centrifughe
Milano. Pierre Moscovici, commissario europeo per gli Affari economici, ha tenuto ieri un discorso a Vienna in cui ha sottolineato che questa è l’occasione, per l’Europa e per gli europei, di prendere “decisioni cruciali per il nostro futuro”, e di farlo con una certa urgenza e su più fronti, che riguardano la tenuta dell’euro, le riforme per la crescita, il completamento dell’unione economica e monetaria dell’Unione europea: è forse l’ultima occasione, questa, non ci si può distrarre. Moscovici entra così a far parte del coro di leader europei che tenta di trasformare questa ennesima, enorme crisi dell’Ue in una opportunità di rilancio che serva a contenere le forze centrifughe, quelle esistenti – la Brexit – e quelle ipotizzate – la Grexit, la Frexit, la Nexit.
Essendo francese, Moscovici parla dell’Ue ma pensa a quel che sta per accadere a casa sua, ché non è dato francese in Europa che non abbia a cuore per lo più gli affari di casa sua. Moscovici oggi combatte Marine Le Pen, che invoca l’uscita della Francia dall’euro e mette insieme tutti i fantasmi antieuropei che aleggiano da anni – forse da sempre – sui francesi: il commissario ancora ieri ha fatto una difesa esatta e accorata della moneta unica, del suo valore, del suo potenziale. Ma questa vocazione europeista in realtà in Francia è sempre stata condizionata da un tabù: la cessione di sovranità. Anche il più europeista dei francesi si ritrae nel momento in cui si toccano temi sensibili per la conservazione della sovranità francese.
È anche per questo che trovare un europeista nella campagna elettorale di Francia è impresa ardua. C’è naturalmente Emmanuel Macron, leader di En Marche!, ieri sbattuto sulla prima pagina dell’Obs con i paramenti da presidente, con un azzardo che fa tremare anche chi non è scaramantico. Macron parla di un progetto comunitario concreto, fattuale, vero, e dice agli intervistatori britannici che si sono innamorati del giovane outsider: l’uscita dall’euro è l’uscita dall’Ue, e la fine dell’Europa.
Ma al di là di Macron, di europeista non c’è nessuno. Marine Le Pen non va naturalmente contata, lei fa parte di quel gruppo di partiti europei che sull’onda del trumpismo ignora-Europa e della Brexit spera di poter far sbocciare un’Europa delle nazioni, in cui fioriscono soltanto gli interessi di ciascun paese a sé. Ma neppure François Fillon, candidato della destra dei Républicains, è un europeista: con tutti i problemi che ha oggi, certo non è il momento per lui di sottilizzare – contro il Penelopegate, lo scandalo degli stipendi parlamentari alla moglie, ora Fillon sta costruendo la sua denuncia di un complotto mediatico-finanziario ai suoi danni – ma l’ex premier votò “no” al referendum sul Trattato di Maastricht, e anche se poi si è accomodato nel lato più filo europeista della sua compagine politica, difficilmente sarebbe un presidente disposto ad approfondire i legami con l’Ue laddove questa profondità significasse una perdita anche minima di sovranità. Il candidato dei socialisti, Benoît Hamon, non ci prova nemmeno a giocare la carta europea (che comunque non è mai stata particolarmente popolare in alcun contesto elettorale): Hamon votò “no” al referendum sul Trattato costituzionale nel 2005, e nell’intervista sull’ultimo numero de LesInrocks racconta come la sinistra “ordoliberale” non fisserà più i termini dei dibattiti, e quanto la sua visione dell’Europa sia estremamente franco-centrica. Che l’Ue possa essere salvata dalle sinistre pare in questo momento improbabile: a caccia di un riposizionamento, le sinistre diventano sempre più radicali e insofferenti verso l’establishment europeo. Soltanto la Germania si salva, e gli strani europeisti di Francia non lo ammetteranno mai, ma non è un caso.