Il signor Schulz
L’Spd tedesca ha trovato il suo outsider, che ancora non ha un programma, però ha una storia da raccontare. I sondaggisti sono in visibilio, ma attenzione ai dettagli
Calciatore, libraio, sindaco, poi parlamentare europeo, infine, oggi, candidato alla cancelleria. E’ questo, in pillole, il cursus honorum di Martin Schulz, il socialdemocratico renano originario di Würselen, paesino a pochi chilometri dai Paesi Bassi, che, a sessant’anni suonati, si affaccia per la prima volta alla politica federale, dopo una vita trascorsa a reggere le sorti prima del proprio piccolo comune e poi del Parlamento europeo. Un unicum anche per la storia della socialdemocrazia, nella quale i candidati cancelliere sono sempre venuti dalle prime file del partito, dopo aver ricoperto incarichi ministeriali o aver occupato lo scranno di governatore di un Land o di capogruppo parlamentare alla Dieta federale.
La candidatura di un outsider è la conseguenza dell’eccezionale gravità in cui versa il partito socialdemocratico sin da quando, nell’autunno del 2005, Gerhard Schröder è uscito di scena, e Angela Merkel domina incontrastata la scena politica tedesca. Da allora è iniziato il progressivo declino della Spd come prima forza politica di governo. All’indomani delle elezioni federali del 2009, dopo una legislatura al governo con cristiano-democratici e cristiano-sociali nella prima Grosse Koalition dal 1969, i socialdemocratici passano all’opposizione. Ci restano quattro anni. Nel 2013 tornano a occupare i banchi della maggioranza, ma soltanto perché i liberali spariscono dalla Dieta federale, bloccati al di sotto della soglia di sbarramento. Ad avere in mano il timone c’è sempre e solo Angela Merkel e con lei il fido Wolfgang Schäuble. Oggi, a circa sei mesi dalle elezioni federali del 24 settembre, rischia di prodursi uno scenario simile a quello di otto anni fa.
La coabitazione tra socialdemocratici e cristiano-democratici e cristiano sociali ha rafforzato i secondi a scapito dei primi, considerati dalla cancelliera poco più che una stampella utile a governare. Data la distanza siderale nei sondaggi e nelle urne, il rapporto tra le due formazioni non è mai stato davvero paritario. Il dividendo del successo è sempre stato incassato dalla signora Merkel, mentre il malcontento popolare è stato scaricato sui socialdemocratici, i quali ne hanno continuano a pagare lo scotto. Proprio per spezzare questo circolo vizioso alimentato dall’eccessiva frequenza con cui ricorrono alle grandi coalizioni, Sigmar Gabriel, presidente dell’Spd dalla fine del 2009, ha abbandonato la guida del partito, favorendo un rapido avvicendamento con Schulz.
L’appiattimento della socialdemocrazia sulla democrazia cristiana è un fenomeno solo in apparenza ineluttabile. Molto meno prosaicamente, è stato il frutto di scelte politiche maturate dalla dirigenza del partito. Franz Müntefering prima, Frank-Walter Steinmeier e Peer Steinbrück dopo, e più di recente anche Sigmar Gabriel sono tutti socialdemocratici fedeli alla linea riformista della celebre Agenda 2020 di Gerhard Schröder e, come tali, non certo inclini ad allargare la base elettorale verso quel popolo della sinistra che “tradì”, abbandonando il partito e fondendosi con i nostalgici del comunismo orientale. Quando il centro dello schieramento è già occupato, puntare nella stessa direzione rischia di essere una strategia elettoralmente suicida, a maggior ragione se nessuna delle personalità più in vista dell’Spd ha mai toccato il livello di popolarità raggiunto dalla signora Merkel. Anche chi, come Andrea Nahles, l’attuale ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, guidava l’ala massimalista del partito, scalpitando di fronte alle titubanze e ai cerchiobottismi democristiani, è stato presto risucchiata dal vortice della “moderazione merkeliana”. La stessa base socialdemocratica, interrogata per mezzo di un’apposita consultazione nel dicembre del 2013, rispose a gran voce di preferire l’“inciucio” ad altri quattro anni di opposizione. I risultati di questa scelta sono sotto gli occhi di tutti. A metà gennaio, prima che Gabriel facesse un passo indietro, l’Spd navigava in acque molto pericolose, ben diciassette punti percentuali dietro la Cdu/Csu, insidiata alle spalle anche dai populisti dell’AfD.
Nel giro di qualche settimana le rilevazioni demoscopiche ci dicono che il quadro è radicalmente cambiato. E il merito pare debba essere attribuito a Martin Schulz. A oggi, gli iscritti all’Spd aumentano esponenzialmente di giorno in giorno, mentre nell’indice di gradimento personale, l’ex presidente del Parlamento europeo è sedici punti avanti rispetto alla signora Merkel. L’Spd, poi, ha più che dimezzato lo svantaggio di gennaio: stando al barometro della tv pubblica Ard, se la Cdu/Csu viaggia pur sempre intorno al 34 per cento, il partito socialdemocratico tocca i livelli più alti mai raggiunti dall’inizio della legislatura (28 per cento). Certo, in Germania il cancelliere non è eletto direttamente dal corpo elettorale, ma dalla Dieta federale, sicché Schulz difficilmente potrebbe avanzare la pretesa di guidare il prossimo governo. Eppure il libraio di Würselen si sta muovendo bene. I sondaggi lasciano pensare che di qui a settembre la distanza possa persino essere colmata e che il rush finale possa diventare determinante. Il repentino cambiamento nell’umore degli elettori sembra da ricondurre al basso tasso di popolarità di cui godeva Sigmar Gabriel più che alla figura e alle proposte di Martin Schulz, il quale, finora, si è in realtà mantenuto molto sul vago. Se, da un lato, egli può vantare un pedigree da socialdemocratico conciliante, che scende a patti con la democrazia cristiana (la sua elezione sullo scranno più alto dell’Europarlamento è stata propiziata da un accordo con il Partito popolare), dall’altro Schulz è un personaggio che polarizza l’attenzione, con un eloquio notoriamente molto aggressivo e fautore di una piattaforma programmatica nebulosa. La sua apertura a un esecutivo rosso-rosso-verde, in compagnia di ecologisti e sinistra estrema, formulata un paio di giorni fa al canale televisivo Zdf, è una mossa inaspettata, anche se per certi versi necessaria.
Dopo dieci anni passati al traino dei cristiano-democratici, i socialdemocratici vogliono tornare a occupare la cancelleria e, per farlo, la nuova dirigenza pare disposta a infrangere un tabù: formalizzare un’alleanza con i post comunisti della Linke, con i quali la collaborazione è fiorita per ora soltanto a livello regionale. A Berlino, invece, il forte antieuropeismo e antimilitarismo del partito guidato sino all’altro ieri da Gregor Gysi, ex spia della Stasi, ha sempre provocato un certo imbarazzo istituzionale e ha impedito “sante alleanze” contro la signora Merkel. E anche ora, che a guidare il partito è subentrata una pasionaria come Sahra Wagenknecht le cose non sembrano destinate a mutare. Potrà un uomo delle istituzioni europee far cambiare idea all’estrema sinistra sui pregi della moneta unica e sull’irrevocabilità del progetto di integrazione? Difficile a dirsi, anche perché negli anni passati Schulz è passato dal sostegno incondizionato agli Eurobond alla difesa a spada tratta dell’austerità, nella speranza che la signora Merkel lo incoronasse presidente della commissione europea. Speranza andata poi miseramente delusa nel 2014, quando Angela gli preferì Jean-Claude Juncker.
La svolta a sinistra di Schulz, avido lettore delle opere dello storico marxista Eric Hobsbawm, resta comunque incerta. Qualcosa di più si capirà il giorno della sua formale investitura da parte del congresso del partito, convocato per il 19 marzo, anche se tutto dipenderà dall’evolversi del quadro politico dei prossimi mesi e in particolar modo dall’esito delle elezioni di maggio nel Land più popoloso della Germania, il Nordreno-Vestfalia, dove la socialdemocrazia ha tradizionalmente la propria roccaforte.
Nel frattempo, la stampa conservatrice insiste sull’inconsistenza della proposta politica del neocandidato socialdemocratico. La Frankfurter Allgemeine Zeitung, in un editoriale del 29 gennaio scorso, si chiedeva che cosa intenda effettivamente realizzare Schulz qualora diventasse cancelliere. Dalle pensioni alla diffusa povertà tra gli anziani, dalla disoccupazione al salario minimo, a pochi è chiaro quale strada egli voglia imboccare. A oggi le idee sembrano insomma fare difetto al “signor Schulz”, più noto al grande pubblico (italiano e non solo) per quella fenomenale scazzottata verbale con Silvio Berlusconi nell’aula di Strasburgo. Era il luglio del 2003. Da allora il “Kapò” ha inanellato una fitta serie di scontri con i suoi avversari politici, persino quando era presidente dell’Europarlamento, carica super partes che a un provocatore, iracondo e attaccabrighe come lui è sempre stata stretta. Gli annali riportano di battibecchi con Nigel Farage, Godfrey Bloom, Daniel Cohn-Bendit. Nel 2004 fu lui a presentare la mozione per far saltare la nomina di Rocco Buttiglione a Commissario europeo, mentre nel 2015 rilasciò una brusca intervista all’emittente Deutschlandfunk definendo degna di un governo golpista la riforma costituzionale appena approvata in Polonia. Persino durante il suo storico discorso dell’anno precedente alla Knesset, Schulz riuscì a suscitare le proteste di qualche deputato israeliano, che abbandonò l’aula. Alla diplomazia e ai toni pacati dell’attuale inquilina della cancelleria, Schulz preferisce da sempre l’attacco frontale. Il suo è il temperamento un po’ rude, ma genuino, tipico dell’uomo nato tra il Reno e la Ruhr. Nemmeno la conoscenza di tante lingue straniere, studiate da autodidatta e orgogliosamente esibite (italiano, francese, inglese, spagnolo e olandese), lo ha aiutato, per ora, a evitare gaffe ed equivoci. Chissà che lo studio da cancelliere dei prossimi mesi non sia destinato a essere più proficuo. Il cuore dei tedeschi sembra essere aperto.