Alla corte di Theresa
La May non si è mai sentita così forte. Popolarità alle stelle, visitatori inattesi (vedi Macron ieri), blitz dai Lord per evitare capricci da “vecchietti”. Poi c’è pure Vogue
La corte di Theresa May è frequentatissima, lei s’è spostata per andare a trovare Donald Trump a Washington, prima invitata d’onore dell’Amministrazione, ma per il resto riceve visite. Ieri è arrivato persino Emmanuel Macron, il ragazzo-outsider di Francia che ha organizzato un comizio elettorale a Londra e poi, sorpresa!, ha annunciato l’incontro con la padrona di Downing Street. Per Macron, leader di En Marche!, europeista e liberale “né di destra né di sinistra”, l’incontro con la May non può che essere un vantaggio – accreditarsi all’estero serve sempre, a Londra ancora di più, Brexit o non Brexit: poi ci sono 300 mila francesi che vivono nella capitale inglese ma votano in Francia – ma la visita è servita anche alla May per ribadire che no, per la leader del Front national Marine Le Pen, le porte di Downing Street non sono altrettanto aperte. La Le Pen è a favore della Brexit e anche di una Frexit, l’uscita della Francia dalla zona euro, mentre Macron è contro la Brexit: come mai la May accetta di incontrare il secondo e non la prima? Calcoli. Calcoli politici. Su questo terreno il premier inglese sta dimostrando un’abilità non comune, o certamente parecchio sottovalutata.
Di calcolo in calcolo, la May ha messo insieme un grande capitale politico. Secondo l’ultima rilevazione Icm per il Guardian, i Tory, partito del premier, hanno un distacco di 18 punti percentuali rispetto al Labour: 44 per cento vs 26. Nella storia picchi del genere si sono riscontrati soltanto in altre tre occasioni: due volte prima del voto del 1983, quando Margaret Thatcher schiacciò il Labour di Michael Foot; e nel 2008, quando il premier era il laburista Gordon Brown. Forte di questo vantaggio, e di questo credito, la May due giorni fa si è presentata come osservatrice del dibattito alla Camera dei Lord sulla legge che dà il via al negoziato con l’Europa sulla Brexit. Assistere alla discussione dei Lord è una prerogativa del premier, ma è una pratica inusuale: la May ha esercitato un suo potere sapendo che il suo silenzio e i suoi occhi puntati avrebbero condizionato lo svolgimento del dibattito.
Poco dopo il suo arrivo, anche altri ministri si sono presentati, accomodandosi su quelle sedie riservate al governo, appena rialzate rispetto al resto dell’aula, che fanno un po’ un effetto imperatrice, esattamente quello che la May andava cercando. Da quel momento anche le tv internazionali hanno cominciato a fare dirette sugli interventi dei Lord, mentre alcuni giornalisti inglesi commentavano: non agitatevi, stranieri, il voto in questa Camera non è rilevante. In realtà un minimo di rilevanza ce l’ha anche questa votazione, ma il punto politico – che la May ha voluto sottolineare di persona, zitta, con le mani sulle ginocchia, e gli occhi severi – è un altro: i Lord, che non sono eletti (sono nominati), non possono, o non devono, arrogarsi il diritto di modificare o ribaltare un voto popolare. Così, nella lotta istituzionale che attraversa da mesi il Regno Unito, l’ultimo capitolo si svolge nella meravigliosa Camera dei Lord, mentre attorno ci si continua a chiedere: chi deve interpretare il voto del popolo? May risponde, senza battere ciglio: io. Gli altri dicono: tutti, ma non i Lord.
Lunedì prossimo Bbc Two manderà in onda un documentario sulla Camera dei Lord, si intitola “Meet the Lords” e in questi giorni i giornali ne hanno parlato molto. Il Times, che cerca di fare da ponte tra popolo ed establishment mantenendo lo status di quotidiano autorevole, ha spiegato nella sua newsletter Red Box: “Proprio mentre pensavamo che il processo della Brexit non potesse diventare ancora più ultraterreno, ecco che inizia una parata di persone che nessuno ha mai sentito nominare, che pone questioni che nessuno avrebbe voluto sentire ancora, a beneficio di nessuno”. In “Meet the Lords”, c’è l’ex speaker, la baronessa D’Souza, che dice: “Ci sono molti, molti, molti peers che non contribuiscono assolutamente a niente, ma che pretendono l’assegno intero”, che vale 300 sterline al giorno. La baronessa ricorda di aver visto un Lord arrivare di corsa una sera col taxi, lasciarlo lì con il motore acceso, precipitarsi in aula, farsi vedere, e ritornare sul taxi per andarsene via, e guadagnarsi il suo lussuoso obolo. “Abbiamo perso il senso d’onore che una volta era di pertinenza a questa carica – sentenzia la baronessa – E questa è una grande vergogna”. Il migliore però al momento pare essere Lord Tyler, che una volta era un parlamentare dei Lib-Dems, e che nel documentario dice: “Questa camera è il miglior centro di cura per anziani di tutta Londra. Le famiglie possono lasciare i loro cari sapendo che verranno trattati bene, pasti molto sostanziosi pagati dai contribuenti, e c’è anche modo di farsi un sonnellino al pomeriggio nella biblioteca”.
Il documentario non avrà l’effetto di calmare gli animi sul ruolo dei Lord, ora diventato più rilevante – i peers possono presentare emendamenti al testo di legge attiva-Brexit, e così rallentare il processo che il governo invece vuole concludere prima della fine del prossimo mese. Già da tempo si parla di una riforma della Camera, e in questi giorni sulla scrivania della May sono passate nuove proposte, ma al di là dei cambiamenti istituzionali – che vertono soprattutto sulla riduzione del numero di Lord: oggi sono 805, di cui 689 nominati a vita, “secondi soltanto al Congresso della Repubblica popolare cinese”, dice Lord Fowler, attuale speaker della Camera – nel confronto popolo-establishment, i Lord non potrebbero risultare più distaccati di così. I conservatori sono la maggioranza – 252 peers – ma sono per lo più contrari alla Brexit; ci sono poi 202 laburisti e un numero straordinario di Lord dei Lib-Dems, 102, se si considera che alla Camera dei Comuni, dove si arriva avendo vinto le elezioni, ci sono soltanto 8 parlamentari Lib-Dems. I conservatori temono che un’alleanza tra laburisti e liberaldemocratici, assieme ai restanti che non sono affiliati ad alcun partito, possa intralciare i lavori della Brexit. Per ora si parla solamente – soltanto ieri hanno chiesto di poter intervenire 190 Lord – ma se dovessero passare degli emendamenti, il testo dovrebbe tornare alla Camera dei Comuni per l’approvazione, ripassare dai Lord se i parlamentari rigettano le modifiche, e quando finalmente ci si accorda sul testo si attende il sigillo reale.
La May non ha tempo da perdere, soprattutto non vuole che sfugga l’attimo di enorme popolarità che sta vivendo, vuole approfittarne ora, perché poi quando la Brexit diventerà realtà, e non soltanto chiacchiera più o meno ispirata, forse il clima cambierà. Il Guardian con regolarità elabora numeri sugli effetti della Brexit: lunedì, due economisti hanno analizzato la famosa frase di May “nessun accordo è meglio di un brutto accordo” sbattuta in faccia agli europei a gennaio, e hanno stimato che, se si dovesse passare dal mercato unico alle regole del commercio internazionale stabilite dalla Wto, gli esportatori potrebbero sostenere fino a 6 miliardi l’anno di costi extra. Una cifra enorme, che viene accolta con scetticismo: tutte le catastrofi annunciate, dicono i brexiteers, non si sono ancora avverate. Ma poi il conto arriverà, lo sanno tutti. May ora punta sul fatto che l’Europa rinunci a ogni istinto punitivo (Macron conferma di non averne alcuno) e coltiva la sua immagine. Ad aprile sarà sulla copertina di Vogue edizione americana, la prima volta per un premier britannico, e mentre si fanno pettegolezzi sulle foto – come si presenterà vestita, la May? Pantaloni di pelle, sì o no? – lei registra soltanto un fatto: è tornata l’epica degli uomini forti alla guida dei loro paesi, oggi. Ma solo perché sottovalutate quel che accade quando è una donna a essere forte.