Le barricate anti Uber non servono. I tassisti seguano l'esempio del Giappone
Le tariffe si riducono per fare concorrenza leale ai disruptor di Uber: un modello di business che mette al centro la comodità del cliente, e che si rinnova
Roma. Da fine gennaio in quasi tutte le zone centrali di Tokyo è entrata in vigore la nuova tariffa base dei taxi, che rende molto più economiche le corse sulle brevi distanze. Prima il cliente pagava 730 yen (sei euro) per i primi due chilometri di tragitto. Una tariffa più cara rispetto a quella di quasi tutte le capitali del mondo (perfino a Roma, dove la quota fissa diurna nei giorni feriali è di tre euro) e che rendeva un po’ troppo costoso l’utilizzo dei taxi se non per casi di stretta necessità. Grazie a un accordo tra il ministero dei Trasporti e l’industria dei taxi di Tokyo, oggi si pagano 410 yen (tre euro) per i primi due chilometri. Quasi il quaranta per cento in meno: riuscite a immaginare cosa sarebbe successo se il ministro Graziano Delrio avesse proposto ai tassisti romani un provvedimento simile? Nella capitale giapponese le grandi compagnie di taxi hanno invece sostenuto la decisione. E il motivo è chiaro: i tassisti di Tokyo devono competere non solo con un efficientissimo e capillare sistema di trasporto pubblico (sebbene costoso anche quello), ma anche con una possibile apertura del premier Shinzo Abe alla sharing economy, e quindi a Uber e ai suoi simili. Ridurre la tariffa significa attrarre più clienti: “Adesso trasporto molte più persone con studenti e bambini, è più economico di una corsa in treno!”, ha detto Kana Ikuta, una tassista di Tokyo al Japan Today qualche giorno fa.
Il video degli scontri di martedì a Roma
Il Giappone non è esattamente il paese simbolo del liberismo selvaggio, anzi. Nel 2015 il primo esperimento di Uber a Tokyo è stato bloccato dal governo per violazione delle regole sul trasporto pubblico, perfino i tassisti giapponesi avevano protestato per concorrenza sleale, e la famosa app era stata relegata al settore del “trasporto di lusso” con conducente. Ma con le Olimpiadi del 2020 alle porte (loro no, non le hanno rifiutate), il governo vuole aprire a nuove possibilità per aumentare gli investimenti anche dall’estero – soprattutto aprire le porte alla cinese DiDi Chuxing, che attrarrebbe turismo dalla Cina. I tassisti di Tokyo lo sanno, ma sanno anche che difficilmente Uber avrà mai il ruolo di disruptor in Giappone: l’idea originale della startup californiana è quella di offrire al cliente un servizio migliore di quello già in uso. A Tokyo, però, prendere un taxi è già un’esperienza confortante: non c’è bisogno nemmeno di aprire la portiera (che si apre da sola) le vetture sono estremamente pulite, le compagnie dei taxi controllano il lavoro degli autisti che secondo l’omotenashi, la cultura del servizio e dell’ospitalità nipponica, sono obbligati a salutare il cliente, a presentarsi (lo fanno anche se non conoscete il giapponese) a portarvi a destinazione nel minor tempo possibile e a dirvi di non dimenticare nulla di personale nella vettura prima di scendere. E’ così dal 5 agosto del 1912, quando fu inaugurato il primo servizio di taxi a Tokyo.
Un modello di business che mette al centro la comodità del cliente, e che si rinnova: da sei anni nella capitale giapponese una donna incinta, registrandosi presso le compagnie di trasporti, può usufruire del servizio taxi in qualunque momento, con priorità assoluta, per andare a fare le visite in ospedale ed evitare la metro, e molte aziende stanno organizzando corsi gratuiti di inglese per i dipendenti, per aiutare la comunicazione con i clienti stranieri. Twitter @giuliapompili