American Affairs
Una rivista per intellettualizzare Trump, compito ambizioso per la destra in cerca di “riallineamento”
New York. Al raduno degli intellettuali conservatori non servono bollicine, solo vini fermi di Long Island e birra Brooklyn. C’è anche la Heineken, ma rimane in ghiaccio per ragioni autarchiche. Si celebra la nascita di American Affairs, rivista di politica con copertina ruvida, com’è nello stile americano, che si è data una missione per arditi: costruire un’architettura ideologica solida attorno al liquido e incontrollabile Donald Trump.
Intellettualizzare Trump? Sembra una fake news, ma in certe serate di Manhattan tutto si porta e molto si giustifica, ci sono crocchi che esaltano le virtù repubblicane e deprecano la riduzione del movimento “America First” alle simpatie nazifasciste, altri che si ricollegano ad antiche tradizioni conservatrici d’improvviso riesumate, discepoli di Pat Buchanan ed esegeti di James Burnham, ci sono feroci critici del globalismo e feroci critici dei feroci critici. Peter Thiel offre le sue caustiche osservazioni in pillole, la sua partner nel dibattito, la liberal Anne-Marie Slaughter, è defilata ma nemmeno troppo. Non servono bollicine ma è pur sempre una bolla, ci si conosce tutti.
David Goldman, già noto come Spengler, si aggira ammettendo che in questo primo mese di Trump non ci ha capito nulla. Il direttore di First Things, Rusty Reno, invece non è stupito dello show. Tutto si spiega con le due regole fondamentali della guerra: “Muoviti velocemente senza curarti degli errori minori. Non commettere un errore fatale”. C’è anche Bill Kristol, e quando appare la sala bisbiglia in modo impercettibile “c’è anche Bill Kristol!”. Niente accade per caso. Ieri sera l’anima del Weekly Standard ha dato un controricevimento con Rich Lowry (National Review) F. H. Buckley (George Mason University), Roger Kimball (New Criterion) e altri conservatori “buoni” opposti ai cattivi filotrumpiani o collaborazionisti. Il bacino d’utenza è sempre lo stesso, e il titolo della serata kristoliana usa un termine chiave della politologia americana, “riallineamento”. Un osservatore sagace la mette così: “Riallineamento è un bel modo per dire: vediamo come dividere la torta”. Ironia suprema, entrambi gli eventi sono all’Harvard Club, la più prestigiosa delle tane dell’odiato establishment. È uno spettacolo riservato all’élite dell’anti élite.
Attorno a Kristol aleggia un gruppo di neocon e nevertrumpers, ospiti inattesi di quella che sulla carta doveva essere un’adunata per soli vincitori, benché di assortite persuasioni. Invece pure dalle parti di Kristol si sorride, e a tenere banco è la nomina di McMaster al Consiglio di sicurezza nazionale, il migliore dei nomi possibili per i wilsoniani con gli stivali. Il tridente in mimetica Mattis-Kelly-McMaster è motivo di sollievo per coloro che erano certi che la vittoria di Trump e del suo popolo barbaro avrebbe distrutto qualunque possibilità di dialogo.
Chiacchierando con il Foglio, Thiel si compiace dell’eterogeneità: “Non credo nel consenso, quello che sta succedendo qui è una reazione alla mentalità ristretta che ha dominato la politica americana negli ultimi 25 anni”, e la riduzione populista che si fa di Trump e degli altri movimenti identitari: “Il vasto consenso e il pensiero unico hanno portato più fragilità a livello globale”, dice. Senza etichetta sulla giacca, ché non ne ha bisogno, s’aggira anche Rebekah Mercer, rossa ambasciatrice della famiglia che più di ogni altra ha foraggiato e plasmato la campagna trumpiana. Steve Bannon è un prodotto del mondo dei Mercer, non certo di quello dei Trump. Ci sono tutti, quindi si nota di più chi non c’è, ovvero Breitbart, la sentina propagandistica del trumpismo. La società che ha organizzato l’incontro dice che alcuni giornalisti di Breitbart erano presenti, ma Julius Krein, direttore di American Affairs, non li ha visti né salutati. Si affretta a dire che non ha nulla a che vedere con Breitbart né ha mai conosciuto quella gente. Krein è un giovane secchione con una laurea ad Harvard che ha fatto i soldi nella finanza prima di ritrovarsi a gestire un giornale online chiamato Journal for American Greatness, che ha avuto più fortuna e clic di quanti chiunque avesse osato immaginare. Ha la stessa età che aveva William Buckley quando fondò la National Review, ma quello era un movimento intellettuale in cerca di un leader, mentre oggi c’è un leader in cerca di intelletto.