Trump e la rivolta bipartisan contro la società manageriale
L’intellettuale che ispira la promessa di Bannon di “decostruire lo stato”
New York. Agitando sicurezza, sovranità e lavoro come capisaldi del rinnovamento repubblicano dopo la grande sbornia internazionalista, Donald Trump ha concluso trionfante il Cpac, il raduno dei conservatori che era iniziato con il disinvito del provocatore Milo Yiannoupolous dopo i suoi commenti a filo di tabù sulla pedofilia ed è proseguito con la cacciata per vox populi di Richard Spencer, leader della alt-right scortato dalla sicurezza fuori dal Gaylord National Resort, nella periferia di Washington. Per la cronaca, sono state anche confiscate bandierine russe con la scritta Trump al centro che i sostenitori qualificavano come vessilli del candidato. Antagonismi, frizioni interne ed espulsioni di elementi estremi non sono una novità per la conferenza che tende a rappresentare lo stato del conservatorismo mainstream.
Tre anni fa uno degli allontanati aveva creato una convention parallela, intitolata The Uninvited, e aveva dato rifugio e voce agli estromessi dal consesso ufficiale. Era Stephen Bannon. Allora era l’oscuro direttore di Breitbart, l’autoproclamata “piattaforma della alt-right” che ha ridefinito in senso nazionalista il linguaggio della destra e con la sua crassa fusione di stili ha federato gli elementi più vocianti dell’arco repubblicano. Quest’anno Bannon è stato accolto con una convinta standing ovation nella veste di stratega e consigliere onnipotente del presidente, a un tempo tessitore di trame e timoniere ideologico dell’amministrazione. Non è solito alle apparizioni sul palco.
La decisione di farsi intervistare da Matt Schlapp assieme al suo dirimpettaio alla Casa Bianca, il capo di gabinetto Reince Priebus, serviva due obiettivi politici e comunicativi non dichiarati ma evidentissimi. Il primo: confermare al popolo trumpiano che la rivoluzione promessa va avanti senza tentennamenti e cedimenti. Il secondo: mostrare che il presunto antagonismo con Priebus, che è un pezzo della burocrazia del Partito repubblicano portato alla Casa Bianca, e tutti i racconti degli insider lo descrivono come messo ai margini da Bannon, è una fantasia senza fondamento. Perciò i due hanno fatto battute goffe e si sono spalleggiati come vecchi compagni di stanza all’università. Bannon, però, è anche il detentore della visione ideologia del trumpismo, il garante della sua filosofia largamente implicita, e così ne ha ripetuto i capisaldi davanti al popolo riunito: ha innalzato il “nazionalismo economico”, distinto dall’etnonazionalismo che a parole rifiuta, si è scagliato contro “i media corporativisti e globalisti”, un conglomerato che riassume tutti i mali postulati dal trumpismo.
Il passaggio più importante del discorso di Bannon è quello in cui ha detto che “la decostruzione dello stato amministrativo” è appena cominciata. L’arcana formula “decostruzione dello stato amministrativo” è una finestra aperta sulla visione del mondo di Bannon, che è quella che informa l’assenza di visione del mondo di Trump. Il riferimento è alla critica dello “stato manageriale” di James Burnham, un radicale partito da posizioni marxiste condivise con il suo amico Trotskij e arrivato a diventare stella polare del pensiero conservatore degli anni Cinquanta. William Buckley diceva che è “stata l’influenza principale sulla National Review dal giorno della sua fondazione. Burnham profetizzava la nascita di un modello produttivo alternativo a quello liberale e marxista, dominato dalle competenze tecniche di manager che non erano né lavoratori né padroni del capitale e dei mezzi di produzione. Soltanto loro, però, hanno le conoscenze per mandare avanti l’attività. “La rivoluzione manageriale”,del 1941, parla della moltiplicazione ed espansione dei manager nella società e negli apparati dello stato, che culmina nella formazione di una classe dirigente tecnoburocratica per quale la vecchia distinzione fra liberali e marxisti non ha presa. Il manager non è di destra né di sinistra, non è capitalista né marxista. Per Burnham il grande, autoreferenziale management andava distrutto, anzi “decostruito”, perché il popolo potesse riprendersi il potere che gli era stato tolto con il pretesto dell’expertise: i manager, infatti, “non rispondono alla comunità politica, ma ad altri manager che definiscono le loro qualifiche”.
Il pensiero di Burnham è stato a lungo accantonato, ma di recente è tornato in superficie nei circoli conservatori, e si capisce perché. Julius Krein, direttore della neonata rivista American Affairs, scrive nel primo numero: “Ora che che il consenso politico e intellettuale degli ultimi decenni sta visibilmente crollando, l’élite manageriale sta iniziando a riemergere come classe distinta e il managerialismo come un’ideologia”. Il populismo trumpiano è la risposta al ritorno managerialista, e infatti una volta preso il potere si propone di “decostruire lo stato amministrativo”, ma non è una battaglia esclusivamente di destra. Il Partito democratico azzerato dall’ascesa di Trump oggi elegge il suo nuovo leader e la lotta fra l’establishment e gli araldi della rivoluzione politica di Bernie Sanders non potrebbe essere più sanguinosa. I maggiorenti del partito sostengono Tom Perez, la sinistra con il turbo Keith Ellison, e anche questo scontro può essere letto in filigrana come una lotta fra il le forze antisistema e lo stato manageriale. “Decostruire lo stato amministrativo” è una frase che avrebbe potuto dire anche Sanders dallo Studio Ovale, e i mesi passati a cercare le sovrapposizioni ideologiche fra i populismi di destra e sinistra al di là di alcune convergenze programmatiche evidenti (protezionismo, isolazionismo) trovano un indizio nella frase di Bannon che evoca il dimenticato Burnham.