Ultimi giorni a Mosul
Dentro la metà ovest assediata, i fanatici aspettano con paranoia la fine dello Stato islamico
Pensate agli abitanti di Mosul ovest, in questo momento, che intravvedono la fine dell’attesa e della guerra. A maggio scoprono che dopo due anni di occupazione dello Stato islamico l’offensiva per liberare la città è cominciata, giù a cinquanta chilometri di distanza in direzione sud. Lo indovinano grazie ad alcuni segni. Colpi d’artiglieria e bombardamenti aerei come un temporale che infuria altrove, appena percettibile all’orizzonte sopra il rumore del traffico. Rimasugli di convogli impolverati di combattenti arrivano sconfitti dalla pianura secca che si stende laggiù. Il passaparola bisbigliato tra chi abita vicino al fronte e vede lo Stato islamico in rotta e chi vive ancora troppo lontano. Gli abitanti di Mosul sono costretti a indovinare perché non sanno nulla con esattezza, popolano la capitale del Califfato (basato sull’idea folle che si può fondare uno stato dove vietare i telefoni) e quindi sono tagliati fuori dal mondo. Tengono i cellulari nascosti in buste di plastica che poi mettono sottoterra per non farsi scoprire dalle ronde dell’Isis (chi ha un telefonino è una spia e merita la morte), non hanno la tv perché hanno dovuto portare le parabole “che corrompono gli spettatori” in piazza e le hanno guardate in silenzio mentre finivano a pezzi sotto le ruote delle ruspe, e com’è ovvio non hanno internet. Però le informazioni hanno una forza irresistibile, circolano a dispetto di chi le vuole silenziare, chi è scappato verso nord ha visto con i propri occhi lo Stato islamico perdere terreno, i pochi che hanno il coraggio di disseppellire i telefonini parlano con chi è fuori e vengono a sapere che l’offensiva è cominciata, che progredisce, che ormai è vicina. Dal cielo, gli elicotteri fanno cadere migliaia di volantini che fluttuano nell’aria e si posano a terra, “la città sta per essere attaccata e liberata”. Poi, a novembre, sentono tutti il rumore reale degli scontri nella metà est della città, gli spari, le bombe, i colpi di mortaio, i passaggi degli aerei, fino a quando vedono i soldati del governo affacciarsi a meno di cento metri, sull’altra sponda del fiume Tigri che divide in due la città. L’altra riva non si può più raggiungere perché gli aerei hanno fatto saltare tutti e cinque i ponti.
A Mosul est oggi ci sono la libertà, la vita normale, i giornalisti stranieri che raccontano il ritorno alla realtà com’era prima dell’invasione, le famiglie che si riuniscono, i venditori di arance nelle strade, le scuole che riaprono, le sigarette di nuovo legali, le telefonate in pubblico, Facebook e la televisione. A Mosul ovest, c’è lo Stato islamico preso in trappola ma che ancora comanda su centinaia di migliaia di abitanti con tutta la sua ferocia, acuita dal senso di disfatta imminente. Roba che ricorda il bunker claustrofobico di Hitler che attende la fine a Berlino. Le fonti sul posto raccontano di combattenti e leader in preda alla paranoia, pronti a balzare addosso al compagno che sospettano di diserzione e di tradimento, di voler scappare, di non credere più al suicidio collettivo in nome di Abu Bakr al Baghdadi. Un paio di giorni fa un’automobile con altoparlante girava per le strade invitando tutti a scovare un leader fuggitivo, Abu Usama, e a ucciderlo sul posto. Bisogna immaginarli, i foreign fighter arrivati nel 2014 perché credevano nell’edificazione dello Stato islamico e oggi vedono tutto crollare davanti ai loro occhi. Alcuni sono fanatici che si eccitano all’idea della morte, altri sono cretini, finiti in una storia più grande di loro, che un paio di anni fa si esaltavno all’idea di spadroneggiare in passamontagna e stuprare schiave yazide e oggi sono in preda al panico, in attesa della fine.
L'editoriale dell'elefantino