Parigi spiegata al villano americano
Nella battaglia tra pancia lepenista e testa macronista, l’ago della bilancia potrebbe essere il portafoglio. Trump dice che “Paris is no longer Paris”, ed è una sciocchezza. Sempre che Macron resista alla nuova Giovanna D’Arco
"Paris a mon coeur de mon enfance”, scriveva Montaigne, e per la sua varietà inimitabile e vitalità definiva la capitale “la gloire de la France et un des plus nobles ornements du monde”. Ma “Paris is no longer Paris”, ci assicura The Donald, Parigi non è più Parigi. Io so di chi fidarmi nel giudizio, ma è pur vero che. (Il meraviglioso proto del Fogliuzzo lasci stare il testo com’è, amo sperimentare qualche gioco linguistico o grammaticale.) È pur vero che secondo i servizi 400, dico 400, combattenti francesi dello Stato islamico si muovono tra Mossul e Raqqa forse pronti a tornare, e non nei centri di deradicalizzazione che hanno ovviamente fallito il loro bizzarro scopo di “curare” dall’islamismo con l’aiuto di psicologi e sociologi. E’ pur vero che il Monde dà per certo il lento declino del capitalismo francese. E che un buon numero di intellettuali della gauche ha dato parecchio credito a un rapper della banlieue che agitava la bandiera antirazzista ma tuìttava sotto pseudonimo il benvenuto a un nuovo Hitler per sistemare gli ebrei superstiti, definitivamente.
Qui a Parigi comunque si danno molto da fare per rinnovarsi, nuovi campus per studio e ricerca, riassetto della Porte Maillot lungo l’asse che va dall’Arco di trionfo alla Défense, start up come se piovesse e ristrutturazioni energetiche delle abitazioni, iniziative solidali di ogni tipo per vecchi e bambini, alla parisiènne sempre sugli scudi con il suo stile si aggiunge con glamour la controparte gay, un tripudio di vacche, pecore, formaggi e charcuterie al salone dell’agricoltura ricorda che c’è crisi e la tentazione del voto per il Front National è forte (ma i volenterosi non mancano e dicono che ce la si può fare con la vendita diretta e altre riforme). Agisce qui un sistema dell’informazione non esente dalle consuete banalità ma capace di parlare e scrivere in una lingua corretta e occuparsi di cose parecchio interessanti. Saranno ombelicali, perché Montaigne dopo Freud e Lacan lo hanno letto come un maestro dell’introspezione invece che come uomo-mondo, ma a parte il celebre cattivo umore di gente indaffarata e ansiosa sono civili, spesso gentili, vanno al mercato, siedono al caffè, trafficano intorno al cibo, fanno figli abbastanza, leggono libri e frequentano mostre d’arte importanti (la collezione Chtchoukine alla Fondazione Vuitton ha fatto un boom da paura). Tre milioni e seicentomila turisti americani nel 2016 hanno pensato che Parigi vale ancora una messa, nonostante le orrende fusillades, e parecchi tra loro sospettano che Washington is no longer Washington da quando si è insediato alla Casa Bianca un impostore arancione (che proprio a Washington ha raccolto il 5 per cento), un villano rifatto, un ringard, come dicono qui, che ha al suo seguito tre ottimi generali scelti per sbaglio o per necessità (Mattis, Kelly e McMaster) e una serie di brutti ceffi scelti per affinità.
Ma c’è un ma che potrebbe giocare in maggio a favore di Trump e della sua paradossale capacità di giudizio: Marine Le Pen. E’ molto abile, lo sanno tutti. È una Marianna all’incontrario, ma fatta e finita. È una Giovanna d’Arco che combatte a fianco degli inglesi della Brexit, dunque di nuovo all’incontrario del modello. È una che come l’arancione ce l’ha su con la finanza internazionale, con i mercati aperti, con gli immigrati, di conseguenza gli ebrei non possono con lei mantenere la nazionalità israeliana e non devono mettersi in pubblico la kippa. È una che predica il protezionismo intelligente, così lo chiama per mettere le mani avanti, e le frontiere chiuse e l’identità nazionale come sovranità e far da sé, di qui il referendum per uscire dall’Unione europea e una moneta francese al posto dell’euro. Su quest’ultimo punto si vede che è imbarazzata, lei che maschera ogni imbarazzo così abilmente, anche quando la interrogano sulle affaires di moneta del Parlamento europeo, la strana greppia degli antieuropei, lei che mantiene il sangue freddo e punta alla chiarezza propagandistica senza le enfasi e le retoriche del passato bolso del suo partito di ultrà (infatti tutti la danno vincente nelle percentuali al primo turno di aprile, e sicura candidata allo scontro finale del ballottaggio).
Qui è il punto. Tra gli eurofavorevoli o eurotolleranti, il candidato gollista François Fillon ha il piombo nelle ali, manteneva moglie e figli coi quattrini dello stato degli assistenti parlamentari, il che non è joli joli, non è un gran bel vedere, come riconoscono anche i suoi estimatori. Tiene duro, ma è impacciato. E’ probabile che lo scontro finale arrivi senza un gollista in corsa, dunque. A sinistra un timido e legnoso Benoît Hamon se la deve vedere, con la sua piattaforma old style di socialismo welfarista, con il pimpante candidato della sinistra radicale, il tonitruante apostolo delle genti, anche lui eurosfavorevole come la Le Pen, Jean-Luc Mélenchon. Risultato: è improbabile che al traguardo della lotta per l’Eliseo arrivi un socialista classico, istituzionale. Queste due improbabilità (le assenze degli eredi di De Gaulle e di Mitterrand) fanno capire il declino, da verificare al di là dei sondaggi ma plausibile, della Quinta Repubblica che si era sempre retta sul confronto tra gollisti e socialisti.
Poi c’è Emmanuel Macron, straordinariamente intelligente, che ha la palma del rinnovamento perché si è miracolosamente sganciato dal maestro del suo apprendistato politico, il Presidente che ha rinunciato al mandato per scarsa popolarità, e lo ha fatto appena in tempo. Macron ha tutto per dispiacere al francese-tipo della nuova ondata presunta: è un banchiere di formazione Rothschild, amico dell’uberisation dell’economia, europeista di forte tempra, anche fisicamente non è un pezzo da novanta, un Asterix o un Vercingetorix, la sua esperienza politica è limitata, l’età giovane per un ruolo di monarca costituzionale che richiede l’immagine dell’autorità, malgrado la sua trasformazione in un misero quinquennato di strapotere al vertice dell’esecutivo (e, diciamolo, del legislativo, che qui conta pochino), e se il physique du rôle non aiuta nemmeno la voce un po’ chioccia trascina, secondo me, riconosciuto che per la verità le sue performance oratorie ottengono un notevole successo. Macron vuole togliere l’Imu sulla casa all’80 per cento dei francesi, ma questa ahinoi l’abbiamo già sentita di qua dalle Alpi, funziona e non funziona. Per il resto, vuole fare riforme incisive con una certa gradualità, e punta al voto di circa cinque milioni di francesi di origine maghrebina dicendo che la colonizzazione fu un crimine contro l’umanità, o almeno certi suoi aspetti (i pieds-noir ovviamente si sono adontati).
Sopra tutto, Macron è mezzo socialdemocratico e mezzo liberale, ha con lui l’establishment, e rifiuta la classificazione a destra o a sinistra, il suo è il tipico progetto di un partito della nazione (sounds familiar?). Tutti o quasi danno per molto probabile uno scontro finale tra il Fronte Nazionale, protezionista e sovranista, anti immigrati e molte altre cose ancora, e il partito della nazione che si chiama En marche!, la coalizione del giovane Macron che è europeista e internazionalista o globalista, tecnologico e finanziario. Nella battaglia tra la pancia lepenista e la testa macronista, l’ago della bilancia potrebbe essere il portafoglio, l’ésprit commerçant tipico dei francesi, perché l’euro è impopolare a chiacchiere, ma una maggioranza netta vuole tenerselo in tasca, così pare. Vedremo, in questo mondo impossibile e imprevedibile. Sicuro che se Macron le prenda dalla Le Pen avremmo la sorpresa di un giudizio azzeccato dell’arancione, e Paris would become no longer Paris, Parigi non sarebbe più la stessa.