Jeff Sessions alla cerimonia di insediamento di Donald Trump (foto LaPresse)

L'asse Washington-Mosca

Colpire Sessions per affondare Trump. Analisi di un attacco strategico

È il procuratore generale sotto schiaffo che ha trasformato The Donald da freak show in macchina politica

Roma. Da ultimo, il caso di Jeff Sessions è finito in un circolo vizioso. Se, come dice l’Amministrazione, alla convention del Partito repubblicano dello scorso anno Sessions ha incontrato l’ambasciatore russo Sergei Kislyak in qualità di senatore, e non di “surrogate” della campagna di Trump, com’è che la trasferta è stata pagata con i fondi elettorali? Sono soltanto le cavillose propaggini di un caso politico al centro della più vasta saga delle relazioni fra il clan del presidente americano e quello di Vladimir Putin. Il Cremlino ha bollato il fermento come “caccia alla streghe”, “vandalismo mediatico”, “isteria”, ha puntato il dito contro “l’atmosfera emotiva” creata dai giornali e ha evocato il maccartismo. Il procuratore generale si è autoescluso dalle eventuali indagini sui collegamenti fra la Russia e gli uomini di Trump, un gesto che è stato accolto dai critici come un’ammissione di colpa, dagli alleati come una concessione ragionevole per chiudere il caso.

Ma il caso non si chiude. Sessions ha negato per due volte sotto giuramento, davanti al Congresso, di avere avuto contatti con funzionari russi, e a posteriori giustifica l’errore con la doppia casacca: ha incontrato Kislyak come senatore, non come luogotenente trumpiano. Non c’è figura che abbia più responsabilità di Sessions nella costruzione della figura presidenziale. I due si conoscevano da tempo, almeno dal 2005, ma è stato dietro il palco di un comizio a Mobile, nella sua Alabama, nell’estate del 2015, che il senatore ha intravisto la possibilità di trasformare quella prodigiosa macchina d’avanspettacolo in un carro armato politico per raccogliere il malcontento e la rabbia verso l’establishment.

  
Il suo endorsement ha fornito a Trump la legittimazione istituzionale che gli mancava. I due hanno cementato il loro legame ideologico su temi come l’immigrazione e la sicurezza e Sessions ha piazzato i suoi uomini migliori nei punti strategici della Casa Bianca. Lo speechwriter e consigliere Stephen Miller è cresciuto alla scuola di Sessions, mentre Rick Dearborn, storico capo di gabinetto del senatore, si occupa di trasformare in leggi e decreti le promesse del presidente. Se Steve Bannon è giustamente rappresentato come il consigliere più influente nella campagna di Trump, va ricordato che l’eminenza grigia venuta da Breitbart è un innesto relativamente recente del circolo presidenziale, espressione della volontà della potentissima famiglia Mercer, i grandi finanziatori dell’operazione trumpiana.

  

Sessions è il cardine originale del trumpismo, gli ha dato forma istituzionale e struttura, ha disciplinato un meccanismo incontrollabile, intuendone l’enorme potenziale. Il generale Michael Flynn, la prima vittima delle connessioni fra Trump e il Cremlino, era tutto sommato un personaggio insulare e di difficile assimilazione, tanto che lo stesso presidente nutriva qualche dubbio sulle sue capacità di governo. Dicono che più d’uno alla Casa Bianca abbia tirato un sospiro di sollievo quando l’istrionico ex generale è stato cacciato. L’attacco a Sessions è di tutt’altro calibro.

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