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Dalla Brexit alla secessione scozzese, esplodono le contraddizioni tra europeismo, stato-nazione e democrazia

Carlo Lottieri

L’indipendenza della Scozia era roba da retrogradi, invece ora è da illuminati: può nascere una nuova Europa dai referendum per l’autogoverno? Rischi e opportunità

Il dibattito europeo degli ultimi anni, prima che molte certezze cominciassero a sgretolarsi, è stato dominato da alcune parole d’ordine: la necessità di costruire un’Unione europea sempre più forte; la valorizzazione degli Stati nazionali quali elementi portanti di questo progetto; i principi della democrazia costituzionale come sfondo imprescindibile di ogni ordine sociale degno di rispetto.

 

Entro questo quadro, chi ha immaginato che una realtà regionale (Scozia, Catalogna, Fiandre o altro) potesse reclamare la propria indipendenza è stato considerato l’interprete di una visione retrograda, esattamente come chi si è opposto a una crescente integrazione europea. In qualche modo, si doveva esprimere una sorta di “patriottismo costituzionale” a casa propria, quando si trattava di fronteggiare i localismi, salvo poi sposare il più esplicito europeismo ogni qual volta c’era l’opportunità di espandere il potere dell’Europarlamento e della Commissione.

 

Le recenti vicende britanniche, però, stanno facendo saltare questi schemi. Il 23 giugno scorso l’opinione pubblica europea ha dovuto riconoscere che, poggiando su uno dei miti indiscussi della modernità politica (e cioè il diritto della maggioranza d’imporre la propria volontà alla minoranza), il Regno Unito aveva legittimamente deciso di lasciare l’Unione.

La coscienza europea è uscita comunque lacerata da quel voto: la fine di una progressiva e ineluttabile unificazione politica delle popolazioni europee (e che Europa sarà un’Europa senza i britannici?) è stata infatti il risultato di un processo democratico. Tutti hanno dovuto ammettere che un sistema politico basato sul suffragio popolare non necessariamente produce un ordine politico sempre più accentrato. D’altra parte, è chiaro che non c’è una sola direzione della storia, la quale vedrebbe il Progresso interpretato prima dai processi risorgimentali (nazionali) e poi dalla costruzione di entità politiche sovranazionali (continentali).

Non bastasse questo, il successo del “Leave” ha ridato forza alle spinte secessioniste scozzesi. Da sempre, lo Scottish National Party è su posizioni europeiste, dato che i separatisti di Scozia ritengono ogni superamento degli stati nazionali assai più agevole entro una cornice europea, capace di garantire – anche dopo la frattura – il mantenimento di tutta una serie di legami e rapporti, a partire dal riconoscimento delle quattro libertà di movimento del Trattato di Roma.

 

Nelle tensioni di queste ore tra Theresa May e Nicola Sturgeon, tra Londra ed Edimburgo, i secessionisti sono pro Europa e i difensori dell’unità britannica stanno premendo l’acceleratore per restituire al Regno Unito una piena indipendenza, grazie a una “hard Brexit”. Ne discende che chi oggi sostiene le posizioni del governo scozzese, che ha annunciato un referendum tra fine 2018 e inizio 2019, spesso lo fa per difendere il processo d’integrazione europea. Ma a questo punto si tratta di un europeismo che mina gli stati nazionali e prefigura un’Europa sostanzialmente sgravata dalla sua eredità ottocentesca.

Negli ultimi mesi è diventato insomma sempre più chiaro quanto sia contraddittoria la pretesa di tenere assieme (al tempo stesso) lo Stato nazionale, il progetto di unificazione continentale e l’idea che l’ultimo titolare della sovranità sarebbe il popolo. La democrazia moderna ha molti difetti e certamente può produrre, in varie circostanze, esiti terribili: dal processo a Gesù alle elezioni tedesche del 1933. Quanti però ritengono che le istituzioni moderne possano regolarci e tassarci a loro piacere proprio in virtù del suffragio universale, oggi non sono autorizzati a contestare l’esito del voto britannico e neppure l’annuncio scozzese e le stesse rivendicazioni dei catalani (ma anche di talune aree italiane, come nel caso del Veneto).

 

Una classe politica che ha progressivamente esteso i propri poteri in virtù di una fittizia o reale legittimazione democratica, non ha molti argomenti contro chi chiede che si possa votare sulle regole cruciali: perché prima di domandare agli scozzesi quali parlamentari devono mandare a Londra, è bene chiedere loro, in effetti, se vogliono avere rappresentanti a Westminster o preferiscono governarsi da sé.

Queste tensioni tra europeismo, nazionalismo e democrazia (perché solo agli abitanti di Edimburgo e Glasgow spetta stabilire se sono politicamente britannici oppure scozzesi) comportano senza dubbio rischi e opportunità.

 

I primi li conosciamo bene, perché la maggior parte dei commentatori rileva di continuo come questo Occidente in rivolta contro le élite corra il pericolo di bloccare gli scambi e impedire la libera circolazione delle persone e delle idee. E di tutto abbiamo bisogno, meno che di perdere quell’integrazione che ha generato tanti benefici.

Vi sono, però, anche formidabili opportunità, perché in questa Europa per lungo tempo sospesa tra i tecnocrati dell’Unione e i vecchi stati nazionali, disposti a rinunciare al loro potere solo in cambio di una compartecipazione al dominio esercitato da Bruxelles, potremmo vedere rinascere regioni e città indipendenti. In altre parole, nulla esclude che le diatribe britanniche aiutino l’emersione di un altro modello di Europa: non più basata sugli Stati e neppure su un’élite sovranazionale, ma affidata a piccole giurisdizioni costrette a competere tra loro e per questo anche obbligate a ridurre la tassazione e regolare il meno possibile.

 

Certo queste vicende ci dicono anche quanto è diversa l’Europa britannica da quella continentale. Solo poche ore prima dell’annuncio della Sturgeon di un secondo referendum indipendentista, in Spagna l’ex presidente catalano Artur Mas è stato condannato proprio per avere organizzato una consultazione referendaria. A Madrid, come da noi (si pensi all’articolo 5 della costituzione), permangono logiche giacobine e un’idea della sovranità che sbarra la strada a ogni ipotesi di autogoverno. Ma nulla esclude che anche la caduta di questi ultimi dèi screditati non sia poi così lontana.