Il problema con la Libia
Perché l’accordo sull’immigrazione va maneggiato con cautela
Ieri il premier libico Fayez al Serraj è arrivato a Roma per accordarsi con il governo italiano e i partner europei sull’implementazione dell’accordo sull’immigrazione siglato il 2 febbraio scorso. Navi, elicotteri, fuoristrada, ambulanze, satelliti, attrezzature: la spesa prevista è di 800 milioni di euro, di cui 200 già stanziati da Bruxelles con una procedura d’emergenza. Dall’inizio del 2017, sono sbarcati in Italia più di 16 mila migranti, il 35 per cento in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno: è questa l’emergenza che ha costretto gli interlocutori europei ad accelerare la messa a punto dell’accordo. Il negoziato è stato molto criticato, ma non ci sono grosse alternative: per controllare gli sbarchi, è necessaria la collaborazione dei paesi d’origine. Anche l’accordo contestatissimo voluto dal governo Berlusconi con l’allora rais Gheddafi partiva dalla medesima logica: ci deve essere un interesse condiviso tra le due sponde per evitare le partenze destinate per lo più alla morte in mare. Ma la fretta nel contenere l’ennesimo picco di sbarchi – e siamo soltanto a marzo, con l’estate la situazione non potrà che peggiorare – cozza contro gli interrogativi politici che riguardano la tenuta di Serraj e di conseguenza quella dell’accordo stesso.
L’Europa non è certo nuova a questi negoziati: si traccia spesso il parallelo tra quel che avviene oggi con la Libia e il patto siglato dall’Ue con la Turchia di Erdogan, considerato sciagurato da molte parti – ancorché inevitabile. Sulla questione della tutela delle persone e dei diritti, non ci sono grandi differenze tra Turchia e Libia, anzi: s’è semplicemente deciso di non fare troppo gli schizzinosi, in nome di un interesse cosiddetto “superiore”, secondo il vocabolario della realpolitik. Ma nel momento in cui Erdogan ha scelto di accettare le condizioni europee, l’accordo ha funzionato, e s’è registrato un netto calo dell’arrivo di migranti dalla rotta turca: oggi si teme al contrario che la retorica brutalmente antieuropea adottata dal presidente turco sia la premessa a un dispetto ben più grave sul dossier dei migranti.
Con la Libia non ci sono premesse politiche altrettanto valide: Serraj non controlla il terreno libico, anzi si dice che controlli a malapena il quartiere in cui abita a Tripoli. Non ha la forza politica oltre che tecnica – di sicurezza – per imporre un controllo sulle coste della Libia, per non parlare della supervisione dei mezzi che arriveranno dando seguito a questo accordo. La debolezza di Serraj è strutturale: la sponsorizzazione di questo governo è gestita con una determinazione straordinaria dal premier Gentiloni (che da ministro degli Esteri aveva gestito il dossier libico), in collaborazione con l’Onu. Ma gli altri? La Russia di Vladimir Putin lavora a un piano di destabilizzazione in tutta la regione e trova grande spazio nel vuoto libico: dà sostegno al generale Haftar nell’est della Libia e dà sostegno a Kalifa Ghwell a Tripoli. I due “strongmen” locali, che in realtà non avrebbero nulla in comune, hanno trovato un punto di contatto: boicottare Serraj, spodestare questo governo “che vogliono soltanto gli italiani”, come dicono con disprezzo molti in Libia, grazie agli aiuti generosi di Mosca. Anche l’Egitto di al Sisi, che pure ha un rapporto burrascoso in particolare con il generale Haftar, lascia che il piano italiano si sfaldi, così come fanno i francesi che a parole sostengono lo slancio di Roma con Serraj ma intanto si preparano all’eventualità che questo fallisca. All’appello manca anche e soprattutto l’America di Trump, e non è un’assenza da poco. Il presidente americano non ha mai detto nulla sulla Libia, né contro né a favore del governo di Serraj, e questo ha un impatto immediato nella tenuta dell’assetto attuale del paese. Se si permette agli “strongmen” di dilagare, a breve non sarà più Serraj l’interlocutore con l’Europa, e se già con lui l’accordo sui migranti è complesso, chissà come potrebbe esserlo con gli altri,