Trump è un fake president
I conservatori seri iniziano a capire l’impostura di Donald e lo mandano a quel paese. Gran lezione dal Wall Street Journal
Fa piacere rileggersi sul Wall Street Journal. Trump, scrivono, si attacca alle sue bugie ampiamente smentite “come un ubriaco alla bottiglia vuota di gin”. Se continua a twittare il falso patente, aspettandosi gli applausi del giro altrettanto ubriaco di Breitbart News e ricavando inimicizia e incredulità in tutto il mondo, non combinerà nulla, nemmeno le cose abbastanza buone che fanno parte teoricamente del suo programma elettorale e presidenziale. La sua credibilità, dice il Wsj, è a zero. Nessuno può badare a uno scatenato narcisista infantile nemmeno quando assume posizioni importanti per il mondo, per esempio sul nucleare nordcoreano, e alla fine il presidente che considera un fake la sua popolarità al 39 per cento, bassina, si ritroverà ad essere un “fake president”.
Non è solo una questione di orgoglio. L’impostore non ritratta mai, non chiede scusa per le cose madornali che dice, perché è un falso presidente, è il conduttore di un reality fattosi demagogo. Segue altre regole. E la sua è una falsa elezione legale ma illegittima, non perché abbia perso nel voto popolare alla grande (3 milioni di voti), ma perché ha guadagnato i suoi centomila voti nei tre stati chiave del collegio elettorale spacciando balle al di sotto del livello minimo di decenza politica e civile. Trump non è solo l’incompetenza e la nevrosi dell’amor proprio al potere, è l’american carnage che ha denunciato con toni bruschi e filistei nel discorso inaugurale. E’ un sintomo, ma non nel senso che hanno voluto leggere improvvisati politologi e sociologi, non il sintomo di un malessere, che c’è in misura incomparabilmente ridotta e diversa rispetto a quanto enfaticamente ha denunciato, è sintomo di una malattia della democrazia americana e mondiale.
E’ vero che Rotterdam è una città parzialmente islamizzata, e che la correttezza politica della tolleranza olandese deve essere corretta a sua volta da una buona dose di scorrettezza, pena guai seri, ma Geert Wilders, che pure è un cinico politico di carriera, non un buffone da circo, trasforma la verità in menzogna ripetendone ossessivamente l’eco di intollerante paura sociale, che non è un modo per governare un problema, nemmeno un problema potenzialmente catastrofico come l’islamizzazione di un pezzo d’Europa.
E’ vero che, come nella Pietrogrado di Lenin, il fronte sociale di Marine Le Pen annovera tra i suoi pilastri operai, contadini e soldati, perché ai percettori di reddito fisso, agli agricoltori esposti alla concorrenza sleale, alle forze dell’ordine le burocrazie europeiste hanno opposto indifferenza e alterigia politicamente corrette, cose da Francia urbanizzata e bobo. Ma il patriottismo antieuropeo e nazionalista, con la fanfaluca del protezionismo intelligente e l’orrore procurato per lo straniero, sono strumenti di tortura e persuasione psicologica del telespettatore e del cittadino suddito, la coalizione degli abbrutiti, il basket of deplorables (che esistono e sono sempre esistiti), non argomenti politici di cittadinanza. E’ vero che il Nord dell’Italia è incazzato e incredulo, ma non è un posteggiatore abusivo narcisista e incolto come Salvini che può rappresentarlo.
Berlusconi, per tornare pedagogicamente sul sicuro di una storia che conosciamo bene, salvò il sistema messo in ginocchio dalla rivoluzione dei magistrati codini, ricompose la politica nel maggioritario, innovò un linguaggio obsoleto, vinse a tutta prima, governò, si oppose, ri-governò in condizioni pazzotiche formalmente ma sostanzialmente razionali. Quando diceva che vecchi quadri comunisti d’apparato stavano prendendosi il paese con la carovana o macchina da guerra di Occhetto e Orlando aveva semplicemente ragione. Non è questo il caso di Trump, che tanto vorrebbe assomigliargli e gli è identico solo nei difetti, perché lui non salva la democrazia americana, rischia di perderla perdendosi in un vortice di balle russofile, tanto per inventarne una, e familiste e quattrinare. Il Wall Street Journal ha avuto, come grande giornale conservatore, un presidente che taglia o dice di voler tagliare le tasse, che riforma o dice di voler riformare la sanità socialisteggiante e inefficiente di Obama (per i criteri americani), un repubblicano che potrebbe costruire una Corte suprema più equilibrata di quella che ha espresso maggioranze assurde negli ultimi tempi, e che gli ha offerto un Pentagono in mani sicure (certe continuità per fortuna sono inscalfibili): se lo mandano a quel paese con le brutte, una ragione ci deve essere, ed è quella dei conservatori seri di tutto il mondo.