I guai della disintegrazione europea in un sondaggio sulla Brexit
Le differenze tra paesi dell’Europa centro-orientale e il vecchio blocco occidentale sono ormai troppo marcate per immaginare un pacifico e omogeneo processo d’integrazione comune
Roma. Leggendo il titolo usato ieri dal Financial Times per l’intervista a Wolfgang Schäuble (“Schäuble moves away from federalist EU vision”), si potrebbe credere che persino l’ultimo dei mohicani abbia abbandonato la buona battaglia integrazionista. In realtà, il ministro delle Finanze tedesco s’è mostrato quanto mai pragmatico sul futuro dell’Unione: “L’idea federale non è morta, ma al momento non ha possibilità di essere realizzata, dunque dobbiamo promuovere i nostri metodi intergovernativi”. Piuttosto che niente, meglio piuttosto.
D’altronde l’approccio dell’Europa a più velocità non è nuovo alla storia della “ever closer union” continentale: la moneta unica e l’area Schengen sono gli esempi più significativi e giù funzionanti di cooperazioni rafforzate, lo strumento presente nei Trattati con cui si può procedere all’integrazione con diverse velocità. Questa volta cambia però la narrazione: l’integrazione “per chi ci sta” viene presentata in chiave antagonista al sovranismo variamente inteso, di marca lepenista, polacca e salviniana, ma anche alle tentazioni isolazioniste modello Brexit. Difesa comune, controllo coordinato delle frontiere esterne, irrobustimento della governance della moneta unica con la creazione di un fondo monetario europeo: in vista del vertice odierno di Roma, a Bruxelles si mettono sul piatto tutte le proposte possibili (tranne una, indigeribile per i tedeschi e i nord europei: l’ipotesi di maggiore redistribuzione delle risorse tra paesi più ricchi e paesi meno ricchi). Poi, quando meno te lo aspetti, Schäuble si leva i panni del freddo calcolatore e sogna: “Ritengo che tra 60 anni l’Europa sarà una unione ancora più forte, non torneremo agli stati nazione”.
A ben guardare, sogno europeista e calcolo lucido si tengono insieme nella visione tedesca. Passata l’ubriacatura euro-ottimista degli anni Novanta, s’è capito a botte di recessioni economiche, referendum e ondate migratorie che le sorti della costruzione comunitaria non saranno mai magnifiche e progressive. Varranno sempre le parole che usò Jean Monnet nelle sue “Memorie”: “L’Europa si forgerà nelle crisi, e sarà la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi”. Persino gli Stati Uniti attraversarono una guerra civile tra schiavisti e abolizionisti dopo circa novant’anni dalla proclamazione della loro indipendenza, ed erano allora un paese di poche decine di milioni di abitanti, non un enorme spazio multi-culturale, multi-linguistico e multi-religioso di mezzo miliardo di anime come l’Europa di oggi. “One size doesn’t fit all”, una sola taglia non va bene per tutti, dicono dunque oggi i sostenitori della multivelocità. I critici di questo modello di integrazione differenziata sostengono invece che esso finirà per rendere ancora più dominante la Germania, o nella migliore delle ipotesi aiuterà a rinsaldare l’asse franco-tedesco (Emmanuel Macron è un sostenitore delle multivelocità) a danno dei paesi periferici, chiamati ogni volta a un “prendere o lasciare”. Ma oggi l’alternativa alle cooperazioni rafforzate – per quante esse prefigurino un’architettura confusa e incoerente dove sarà difficile per cittadini e imprese districarsi – non sarebbe lo status quo, ma la disintegrazione.
Le differenze tra paesi dell’Europa centro-orientale e il vecchio blocco occidentale sono ormai troppo marcate per immaginare un pacifico e omogeneo processo d’integrazione comune. E senza fatti concludenti nuovi e d’impatto, dopo la Brexit potrebbero arrivare la Frexit e l’Italexit, in un vortice di demagogia e illusione totalmente avulso dalla razionalità economica. Quest’ultima, invece, ci racconta quanto sia importante tenere la barra dritta sull’Europa aperta. Circola da pochi giorni un’indagine sulla Brexit realizzata dalla law firm internazionale Hogan Lovells, che ha intervistato 210 dirigenti di società con fatturato annuo superiore al miliardo di dollari e operanti tra sette paesi e macro-aree (Regno Unito, Francia, Germania, “altri paesi Ue”, Stati Uniti, Giappone e Cina). Il 64 per cento di questi ritiene che nei prossimi cinque anni la propria azienda soffrirà una riduzione degli utili a causa dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, una percentuale che sale al 90 per cento tra i sudditi di Sua maestà. Nonostante la retorica ottimista del premier inglese Theresa May, solo il 7 per cento dei dirigenti britannici intervistati considera la Brexit un’opportunità per le loro aziende, una percentuale che scende a zero tra i colleghi stranieri. Se nel settore finanziario le imprese appaiono più preparate al “deep impact”, negli altri settori il pessimismo è marcato. Si spera nel negoziato, nella capacità dei governi di ridurre le conseguenze negative e di evitare lo scenario peggiore, l’uscita dal mercato unico senza accordo. Il destino dell’Europa è insomma nel pragmatismo e nelle soluzioni creative e differenziate, in attesa di tempi migliori. Calati giunco che passa la piena.