Israele, Putin e Assad. “Posso bombardare i vostri alleati?”. “Prego, fate pure”
La guerra segreta e la farsa diplomatica che si giocano nei cieli siriani sono arrivate al punto di non ritorno
È venerdì 17 marzo 2017 e in medio oriente succedono cose impensabili. La prima è che Israele ammette per la prima volta i raid aerei contro le basi militari di Bashar el Assad dentro la Siria. Il governo di Gerusalemme aveva sempre tenuto una linea molto discreta sulla guerra civile che si combatte nel paese a fianco, non aveva mai preso posizione e anzi si era chiuso in un bozzolo improbabile di diplomazia muta – come se tutto quello che succede in Siria non riguardasse anche gli israeliani. Per la prima volta annuncia di avere lanciato un raid aereo in Siria – vedremo più avanti perché – ma non parla ancora di tutto quello che è successo prima: una campagna di bombardamenti oltreconfine che va avanti da quattro anni, dal gennaio 2013, almeno 44 missioni e mai una conferma ufficiale (è difficile tenere il conto preciso perché sono operazioni segrete e alcune potrebbero essere avvenute senza testimoni, ma che ci siano state è un fatto assodato: “una campagna di bombardamenti discreta” è un ossimoro). Soltanto una volta, il 7 dicembre 2016, il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Liberman, parla agli ambasciatori dell’Unione europea e spiega che le missioni aeree israeliane in Siria sono fatte per bloccare il trasferimento “di armi sofisticate e di armi chimiche” al gruppo libanese Hezbollah, e in questo modo rivela anche che secondo Israele il governo di Assad nasconde ancora armi chimiche in violazione dell’accordo dell’estate 2013. Ma il ministro è una personalità irruente e le sue parole non sono molto notate.
La seconda novità di venerdì 17 marzo è che Israele colpisce in profondità dentro la Siria. Di solito i jet si limitano ad arrivare fin sopra alle montagne del Libano e a sganciare bombe speciali, le Spice 1000, che planano nell’aria per decine di chilometri fino ad arrivare sul bersaglio. E di solito è sufficiente, le basi militari colpite di più sono quelle vicine alla capitale Damasco a circa sessanta chilometri dal confine. Ma questa volta le bombe non possono arrivare perché l’obiettivo è fuori dalla loro portata (100 chilometri), quattro aerei imboccano una rotta che passa a nord della Beqaa libanese controllata da Hezbollah, penetrano per trecento chilometri nello spazio aereo siriano e colpiscono l’aeroporto militare T4, nel deserto vicino Palmira, appena strappata per la seconda volta allo Stato islamico (è ancora la sera del 16 marzo, per la precisione). La base T4 era stata assediata per settimane dagli estremisti ed era diventata un rifugio anche per i soldati russi scappati in fretta da Palmira a dicembre. Era stata, per qualche settimana, la guarnigione russo-siriana sul confine tra Stato islamico e Siria. Forse gli iraniani e il gruppo libanese Hezbollah sperano che sia troppo lontana per essere bombardata da Israele, oppure che sia in un luogo troppo simbolico per essere colpita – perché è vicina alla città-scrigno-d’arte di Palmira (che gode di uno status privilegiato rispetto alle altre città rase al suolo allegramente in Siria) e si sa che l’opinione pubblica è veloce a immaginare che “se non stai con gli assadisti allora stai con l’Isis”. Oppure, ancora, confidano nel fatto che la presenza di soldati russi dissuada Israele.
Secondo fonti del giornalista israeliano Ron Ben Yishai, decano del settore, dentro la T4 ufficiali iraniani passano al gruppo Hezbollah una quantità di missili balistici Scud modello D, il più accurato della famiglia. Altre fonti precisano che i jet colpiscono un convoglio partito dalla base e non la base stessa, per non correre il rischio di uccidere soldati russi. Se credete che il governo israeliano abbia una posizione neutrale sulla guerra in Siria, considerate questo: ha seguito questo trasferimento di armi mentre avveniva. E anche quando sostiene che il governo di Assad ha ancora armi chimiche, potrebbe avere informazioni solide. L’ultima volta che Israele aveva colpito così in profondità in Siria era il 6 settembre 2007, i jet avevano raso al suolo un reattore nucleare – Damasco negò la sua esistenza, un rapporto delle Nazioni Unite ha poi confermato nel 2011 che c’era.
Perché Israele ammette questo raid specifico? Perché per la prima volta i siriani rispondono al fuoco e sparano almeno quattro missili terra-aria contro i quattro jet. Sono SA-200 di fabbricazione russa, meglio conosciuti con la sigla Nato SA-5 (la Nato è un’organizzazione militare che tra le altre cose studia e tiene l’inventario delle armi prodotte dalla Russia. C’è chi la considera obsoleta) e sono appena stati in Russia per essere aggiornati. E’ come se il governo di Damasco volesse sfoggiare la nuova capacità militare acquisita grazie alla partnership con i russi davanti al mondo. Per abbattere uno dei SA-5 anche gli israeliani ricorrono a una prima volta: sparano uno dei loro missili Arrow, che è un sistema a ombrello che protegge il paese dai missili balistici a lunga gittata. C’è Iron Dome, che è il sistema che in piccolo distrugge in volo i razzi semiartigianali sparati da Hamas nella Striscia di Gaza, e ci sono gli Arrow, che fanno la stessa cosa in grande – ma non c’era mai stato bisogno prima. Un contro-missile israeliano colpisce un missile siriano in diretta sugli schermi radar che sorvegliano la Siria, è uno dei cieli più militarizzati del mondo, a Gerusalemme scattano le sirene dell’allarme antiaereo, i frammenti dell’esplosione piovono fino in Giordania, a quel punto negare il raid sarebbe ridicolo.
Quel venerdì la Russia convoca l’ambasciatore israeliano da poco arrivato a Mosca e senza troppi riguardi per il fatto che è già la sera di shabbat, segno che c’è parecchia rabbia o agitazione. Il 9 marzo il primo ministro d’Israele, Benjamin Netanyahu, era arrivato a Mosca per parlare con il presidente Vladimir Putin e fare pressione contro la presenza iraniana in Siria, qualsiasi cosa si fossero detti c’è bisogno di una nuova conversazione una settimana dopo. La Siria intanto annuncia in tv di avere abbattuto un aereo israeliano e di averne danneggiato un secondo, ma non è vero (le immagini dei rottami si riferiscono ai missili). Alcuni commentatori dicono che i russi impongono a Israele uno stop alle operazioni aeree, ma o è falso oppure gli israeliani non obbediscono, perché domenica 19 e lunedì 20 lanciano altri due raid, però vicino al confine libanese (più facili). Un drone israeliano colpisce l’automobile di un leader delle milizie pro-governative sulle alture del Golan, sono le milizie nazionali di difesa (quwat al difaa al watani) create dal governo siriano con l’aiuto di esperti iraniani con compiti controrivoluzionari. L’ambasciatore della Siria alle Nazioni Unite, Bashar al Jaafari, dice che “il gioco è cambiato e ora Israele ci penserà un milione di volte prima di colpire di nuovo”. Il ministro della Difesa Liberman dice alla radio militare israeliana che “la prossima volta che i siriani sparano contro aerei israeliani distruggeremo tutta la loro difesa aerea senza esitazioni”. Domenica 26 il governo siriano rincara: “Se Israele attaccherà di nuovo lanceremo i missili Scud, possiamo colpire la città di Haifa”.
Gli iraniani passano a un giornale kuwaitiano la notizia, velenosa e per nulla verificata, che i jet israeliani sono riusciti a volare così indisturbati nello spazio aereo siriano perché hanno i codici del sistema di difesa aerea siriano, glieli hanno passati i russi. In pratica, il sistema vede gli aerei israeliani ma li identifica come amici. Fa parte del gioco di disinformazione incrociata che ogni giorno le potenze militari in medio oriente si sbattono in faccia l’una con l’altra.
Il raid della base T4 mette in crisi tutto il complicato patto vedo-non vedo-faccio finta-di-non-vedere tra Gerusalemme, Teheran, Damasco e Mosca. Proviamo a spiegarlo. In un prossimo futuro ci sarà la terza guerra tra il gruppo libanese Hezbollah e Israele, dopo l’ultima che si è interrotta senza un risultato definitivo nel luglio 2006. Gli israeliani hanno già fatto circolare la loro dottrina militare in caso di ripresa del conflitto e prevede misure molto punitive per i siti da dove i guerriglieri libanesi sparano razzi e missili – quella zona vicina al fiume Litani che è pattugliata anche dai Caschi Blu italiani, dopo la guerra del 2006 – e per i comandi militari dentro Beirut. La dottrina prevede la demolizione delle infrastrutture di Hezbollah con bombardamenti cruenti, quando è uscita alcuni giornali nei titoli hanno usato il verbo “polverizzare”. Per questo motivo Hezbollah e gli sponsor iraniani hanno deciso di sfruttare il caos siriano e di allargare il fronte e i siti di lancio alle alture del Golan tagliate dal confine tra Israele e Siria e lo hanno anche annunciato ai giornalisti locali. Scrive Ron Ben Yishai sul quotidiano Yedioth Ahronoth: “Hezbollah e gli iraniani hanno più o meno esaurito il potenziale del Libano di diventare la base delle operazioni contro il fronte nord israeliano e contro le comunità di civili. Per questo hanno bisogno di un nuovo fronte sul Golan, da cui lanciare missili sulla fascia centrale di Israele e anche incursioni di terra contro il nord e contro gli abitanti delle aree adiacenti al confine”.
Ci avevano già provato all’inizio del 2015, ma un drone israeliano era volato per tre chilometri dentro lo spazio aereo siriano e aveva colpito il convoglio che stava portando un generale iraniano in visita (sembra che avesse dimenticato in tasca il telefonino acceso, che funzionò come un rilevatore di posizione) e aveva ucciso anche il giovane Jihad Mughniyeh, figlio del leggendario leader militare di Imad, assassinato a Damasco nel 2008. Ora Hezbollah e iraniani ci stanno riprovando, ma questa volta intendono trasformare la Siria intera nella piattaforma per il prossimo conflitto. Anche quel che resta di Palmira, se è necessario (per capire il clima, si può andare a vedere un’intervista sulla tv siriana al figlio di Khaled al Asad, celebre archeologo eroe che si fece uccidere dallo Stato islamico piuttosto che abbandonare la città e i suoi tesori d’arte. Ebbene, il figlio dice che la distruzione di Palmira è il risultato non dell’invasione dei guerriglieri di al Baghdadi, ma di un più vasto e pericoloso complotto degli israeliani. Vedi gioco della disinformazia citato prima). Ben Yishai definisce questi raid aerei e questi duelli a colpi di missile in Siria “la battaglia per la prossima guerra”, vale a dire per decidere chi partirà in posizione di vantaggio quando arriverà un conflitto che è considerato inevitabile.
I russi non hanno alcun interesse strategico a mettersi contro Israele, ma in questo momento non possono fare a meno degli iraniani in Siria. Da quando nel giugno 2015 il generale Qassem Suleimani, architetto delle operazioni di Teheran in tutto il medio oriente, volò a Mosca per chiedere aiuto nella guerra in Siria e ottenne l’intervento di aerei, elicotteri, artiglieria e forze speciali russe, Putin non può abbandonare il campo da perdente. Per vincere però gli aerei non bastano, ci vogliono anche gli uomini a terra e mandare “boots on the ground” contro i gruppi armati sunniti che infestano città e colline in Siria vorrebbe dire – come hanno imparato gli americani a loro spese in Iraq – dover sopportare molte perdite. Ma la questione non si pone, non c’è, perché le truppe le mettono gli iraniani e quando non sono truppe regolari sono le migliaia di miliziani sciiti stranieri addestrati dagli iraniani (soltanto gli afghani della brigata Fatemiyoun spediti ad Aleppo sono diciottomila).
Per Putin impegnare uomini a terra in Siria sarebbe davvero un problema. Già adesso, con un impegno tenuto al minimo, a livelli fantasmatici, deve sopportare perdite troppo alte. Durante la riconquista di Palmira partita il 29 gennaio, una trappola esplosiva ha tagliato entrambe le gambe del generale russo Petr Melukhin – che dirigeva le operazioni proprio nella zona della base T4– e ha ucciso i quattro soldati che erano con lui. Secondo un’inchiesta di Reuters (fatta sentendo le famiglie dei soldati in Russia) pubblicata il 22 marzo, Mosca nasconde le perdite: da fine gennaio ne ha dichiarate soltanto cinque, ma in realtà sono diciotto, perché nella maggioranza dei casi sono contractor – quindi non truppe regolari – e in altri casi impone il silenzio. Ma nel 2018 ci saranno le elezioni e considerato il clima di malumore che si respira in Russia è meglio pensare a una via d’uscita (del resto Putin ha già annunciato in due occasioni il parziale disegagement dalla Siria). Il patto con gli iraniani è chiaro: noi mandiamo gli aerei e i consiglieri militari, voi mandate la carne da cannone. Quando nel maggio 2016 il capo delle operazioni militari di Hezbollah in Siria, Mustafa Badreddine, ha provato a protestare con il generale iraniano Suleimani che stava perdendo troppi uomini e che il movimento libanese ci stava rimettendo troppe risorse, in un incontro riservato all’aeroporto di Damasco, l’iraniano ha detto alla sua guardia del corpo di ucciderlo. Ameno, così dicono gli israeliani: forse è vero, forse è ancora una volta il gioco della disinformazia.
Martedì 21 marzo il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha detto che la minaccia principale per Israele è l’Iran. Sempre la solita musica da anni, si dirà, tutti sanno che Israele mette l’Iran in cima alla lista dei nemici. Ma la parte importante nelle parole del capo del Mossad è quella che manca, quella che è rimasta sottintesa. Proviamo a riassumere così quello che Cohen non ha detto: le bande di estremisti sunniti che scorazzano in jeep, bandana e mitragliatrice per metà della Siria non ci impensieriscono tanto quanto la presenza militare iraniana, che sta lavorando per trasformare il paese nella sua piattaforma militare proprio accanto a noi, al di là del reticolato che taglia le alture del Golan. Quelli hanno i coltellacci e le telecamere e si scannano anche tra loro all’inseguimento del Califfato. Gli altri hanno un disegno organico, organizzato e molto più discreto, comandi militari, strutture scientifiche, missili balistici e un programma atomico ora sospeso. E l’Iran ha alleati in Siria. L’alleato più importante è la Russia di Vladimir Putin.