La beffa cinese definitiva: Pechino difende l'ambiente da Trump
Dopo essersi reinventato difensore dell’ordine globale, Xi ha deciso di riciclarsi come paladino ecologista
Roma. Il rovesciamento del mondo così come lo conosciamo era iniziato a Davos all’inizio di quest’anno. Il presidente cinese e segretario del Partito comunista, Xi Jinping, si era stagliato davanti alla platea della plutocrazia globalizzata internazionale come l’ultimo difensore strenuo della libertà di commercio e di movimento, contrapposto al presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump, che prometteva dazi e tariffe all’importazione delle merci straniere e annunciava una chiusura dell’America in se stessa, il ripudio degli alleati tradizionali e la rinuncia al suo ruolo tradizionale di poliziotto del mondo.
I plutocrati di Davos si sono spellati le mani per Xi Jinping, anche se il suo gioco era scoperto: la Cina, oltre a essere un paese non libero, applica da sempre più dazi al commercio di quanti, probabilmente, l’America non ne applicherà mai nemmeno sotto Trump, ma le sue parole hanno rincuorato una comunità internazionale spaventata e priva di una guida. Pechino lo sa e, dopo un periodo di iniziale spaesamento, ha iniziato a trovarsi a suo agio nel nuovo ruolo. E dopo essersi reinventato difensore dell’ordine globale, Xi ha deciso di riciclarsi come paladino della difesa dell’ambiente.
Soltanto pochi mesi fa l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, pungolava la Cina sulle politiche di limitazione delle emissioni e sulla firma del Trattato di Parigi sull’ambiente. Quando infine la Cina firmò, Obama seppe presentare al mondo quell’accordo come un esempio storico di moral suasion americana. Questa settimana, dalla Casa Bianca, Donald Trump ha falcidiato con un ordine esecutivo la legacy ambientalista di Obama.
Per alcuni è una tragedia, per altri è un aiuto doveroso al business americano, per la Cina è un’opportunità da non mancare. Pechino ha aspettato che Trump firmasse l’ordine esecutivo sul clima per bacchettare la Casa Bianca. Mercoledì un rappresentante del ministero degli Esteri, citato dal New York Times, ha detto che la Cina mantiene il suo “impegno pieno” nel raggiungere gli obiettivi fissati a Parigi “indipendentemente dalle politiche ambientali degli altri paesi”.
Il Global Times, tabloid nazionalista, ha attaccato l’Amministrazione Trump dicendo che l’America viene meno al suo ruolo di esempio per il mondo. Anche qui, il gioco è scoperto. La Cina è il paese più inquinatore del mondo, e in nessuna proiezione futura smetterà di esserlo entro tempi ragionevoli. Gli sforzi americani per l’ambiente sono – e con tutta probabilità resteranno – maggiori di quelli di Pechino, ma Xi Jinping ha saputo cogliere per la seconda volta una falla nell’architettura ormai cadente del soft power americano, e ne ha approfittato. Sotto il leader più potente dai tempi di Deng Xiaoping, la Cina sta ponendo le basi per la costruzione di una superpotenza non solo a livello economico e militare, ma anche di attrazione globale del proprio modello di sviluppo.
La fortuna che il presidente Xi non si aspettava è che, in maniera coincidente allo sforzo cinese, la superpotenza rivale lavorasse per abdicare dal proprio ruolo. I due si incontreranno il 6-7 aprile a Mar-a-Lago, è facile immaginare che Trump assumerà toni da macho, ma Xi sa che sul lungo periodo le politiche di Trump lavorano per lui. Ancora sul New York Times, Thomas Friedman ha scritto che Trump è un “agente cinese”. In Cina, inoltre, la protezione dell’ambiente è un’arma doppia: se da un lato è utile sbandierarla per acquistare autorevolezza all’estero, dall’altro serve al governo per mantenere la stabilità interna. Nessun tema rende la popolazione di Pechino e delle grandi metropoli nervosa come lo smog – certo non la negazione dei diritti umani –, e studi recenti presentati dalla stampa cinese hanno affermato che l’inquinamento ambientale avrebbe un legame diretto con gli effetti del riscaldamento globale. Le nuvole soffocanti che avvolgono i grattacieli della capitale sono una prova tangibile dei fallimenti governativi in politica ambientale, e la burocrazia comunista non può permettersi di sbagliare.