Perché non bisogna smettere di parlare delle radici islamiste del terrorismo
Bisogna dare battaglia sul terreno culturale
A una settimana dall’attentato di Londra non c’è segno di una discussione seria sulle radici del terrorismo islamista e, più in generale, sulle ragioni dell’ostilità di ampi settori (non necessariamente terroristici, naturalmente) del mondo islamico nei confronti della civiltà occidentale. La preoccupazione di evitare guerre di religione e la volontà di ribadire, con qualche semplificazione comprensibile a non per questo meno fuorviante, che nessuna religione autorizza la violenza hanno creato un clima culturale che tende a sostituire illusioni e aspirazioni alla realtà.
Esiste una differenza sostanziale, se non nelle religioni almeno nelle civiltà cui hanno dato origine e senso, e riguarda la libertà, la dignità della persona e in primo luogo la libertà della donna. È vero che questa libertà, che pure origina dalla concezione del libero arbitrio propria (soltanto) della tradizione giudaico-cristiana, si è affermata anche in occidente solo nell’ultimo secolo, grazie a una rivoluzione femminile che ne è stato uno dei tratti dominanti. Ora però, nonostante tutti i limiti, la libertà e l’eguaglianza della donna nell’ambito di una complessiva dignità e inviolabilità della persona, è un carattere fondamentale della civiltà occidentale. Una differenza si esprime necessariamente in contrapposizione, ostilità o addirittura aggressione violenta?
Naturalmente sarebbe meglio che il confronto si svolgesse sul terreno delle convinzioni e della battaglia delle idee, ma questo è negato alla radice dal fondamentalismo islamico (ma anche da quello induistico e, più sottilmente, dagli eredi del confucianesimo che governano la Cina). Nell’epoca della comunicazione globale i modelli occidentali tendono a prevalere e a promuovere un’estensione mondiale della rivoluzione femminile, ma proprio per ostacolare questa tendenza nelle società e nelle civiltà patriarcali si diffondono forme autoritarie di controllo dell’informazione, mentre nei settori più radicali si crea una ostilità che giustifica la reazione violenta. Dire che le leadership religiose debbono opporsi alla degenerazione bellicosa della predicazione va benissimo, ma non risolve il problema.
Anche rinunciando al proselitismo religioso propriamente detto, la civiltà giudeo-cristiana esercita un’influenza colossale attraverso la propaganda della libertà insita nel suo messaggio culturale, che può essere demonizzato come commerciale e consumistico, ma mantiene comunque il suo carattere sostanzialmente eversivo del patriarcato autoritario. L’occidente non potrebbe rinunciare, anche se volesse, a esercitare questa influenza e quindi a provocare le reazioni contrarie. Questo significa che oltre a difendersi dalle specifiche minacce terroristiche, che coinvolgono una minoranza aggressiva del mondo islamico, è inevitabile cercare di dare battaglia sul terreno culturale, in modo consapevole, non per “esportare” un modello economico sociale, ma per ampliare il più possibile la consapevolezza dell’esigenza di espandere la libertà e la dignità umana.
Più larga sarà la diffusione di questa influenza, più ristretto si farà il bacino in cui si sviluppa l’integralismo violento, il che significa che il confronto di civiltà è lo strumento più potente di lotta e di isolamento del terrorismo, non ne è affatto una causa, come si dice in base a una concezione scioccamente sincretica dell’indifferenziata comune civiltà. Le differenze sono la realtà, l’identità è una ideologia basata sulla negazione dei fatti, di fatti, come la concezione della famiglia, della libertà, delle forme di convivenza, che investono direttamente le persone. A queste persone in carne e ossa bisogna rispondere, e non alle elucubrazioni cosmopolite che vogliono nascondere la realtà come gli struzzi che si illudono di farlo nascondendo la testa sotto la sabbia.