Cos'è la destra?
Trump combatte gli “estremisti” del Gop, ma non si sa come distinguere intransigenza e moderazione
New York. Donald Trump conduce la Casa Bianca secondo un metodo che il sempre informato Mike Allen sintetizza con la formula “caos e lealtà”. La lealtà è quella dell’inner circle ideologico di Steve Bannon e del familismo amorale che ha portato la figlia, Ivanka, ad assumere un ruolo formale nella Casa Bianca. Sul caos non c’è bisogno di argomentare molto, basta notare che in settimana una vicecapo di gabinetto, Katie Walsh, è stata licenziata e l’apparato ha sudato parecchio per presentare il divorzio come una separazione strategica consensuale. Ma il caos è anche più profondo, ideologico addirittura. Dopo il disastroso tentativo di abolire e rimpiazzare l’Obamacare con una nuova riforma sanitaria, Trump ha dichiarato guerra ai membri del Freedom Caucus, il gruppo di deputati che ha fatto naufragare il disegno di legge che definivano con sprezzo “Obamacare light”. Trump ha twittato duramente: “Il Freedom Caucus danneggerà l’agenda repubblicana se non entra presto nella squadra, e velocemente. Dobbiamo combattere loro e i democratici nel 2018”, e ha messo nel mirino i leader di corrente facendo nomi e cognomi. La battaglia interna ha dato luogo alla curiosa rappresentazione di un Trump che fronteggia i conservatori estremisti, gli intransigenti, i puri, gli arrabbiati. Un momento: non doveva essere lui il puro, l’arrabbiato? E poi: che cosa significa nel panorama della destra americana di oggi essere estremisti? In base a quali criteri ci si colloca nella frangia moderata o estrema della schiera conservatrice? Grande è la confusione sotto il cielo della destra. A detta di Trump, gli avversari del Freedom Caucus sono estremisti perché vogliono cancellare le protezioni dell’Obamacare, ma il manipolo protesta: è soltanto l’ortodossia conservatrice.
In linea con una tradizione antica della destra, i circa trentacinque membri del Freedom Caucus sostengono tagli profondi della spesa pubblica, restrizione del welfare e predicano il verbo ultraliberista in materia di commercio. La loro fedeltà indivisa va alla lettera della Costituzione, che giurano di difendere a corpo morto, e in questo senso il loro punto di riferimento ideale è Ted Cruz. Spesso vengono considerati una costola del Tea Party, ma per quanto le due correnti abbiano diversi punti in comune, il fervore costituzionale del gruppo non è riducibile alla pura battaglia contro il big government. Anche la loro affiliazione all’establishment è una questione complicata. Erano formalmente antisistema prima di essere superati da Trump, e allo stesso tempo sono ben radicati nei gangli del potere, proliferano nell’ambiente del palazzo.
Se questi sono gli estremisti, significa che le posizioni protezioniste e la flessibilità sulla spesa del presidente sono segni di moderazione? Perché allora il mondo vive nel terrore del fascismo montante? C’è chi dice che Trump non faccia nemmeno parte della tradizione della destra americana, ma a questo obiettano a muso duro i paleoconservatori, che rivendicano l’identità protezionista e isolazionista del partito, impostazione effettivamente nata molto prima delle influenze internazionaliste del Gop. “Siamo una repubblica, non un impero”, diceva negli anni Ottanta Pat Buchanan, espressione dei sentimenti della vecchia destra nazionalista che aveva però trovato espressione nell’idea “fusionista” di Reagan. Non è semplice districarsi nel caos ideologico di un partito che non sa se classificarsi e dunque scontrarsi attorno a un dipolo di tipo fiscale e commerciale (liberisti-protezionisti), sul ruolo dell’America nel mondo (internazionalisti-nazionalisti), sul rapporto con il potere (populisti-establishment), sulle battaglie culturali (tradizionalisti-progressisti). Di certo Trump non ha risolto la crisi d’identità del mondo conservatore.