Il riallineamento di Donald Trump, le nomine e la guerra con Kushner
L'operazione McMaster. Non solo Bannon. Sotto la spinta dei militari, il consiglio di sicurezza si riempie di uomini d’establishment
New York. Quando H.R. McMaster, apprezzato rappresentante della gerarchia militare, è stato nominato consigliere per la sicurezza nazionale dopo la cacciata rocambolesca del più eccentrico Michael Flynn, si diceva che le possibilità di sopravvivere e avere voce in capitolo nell’Amministrazione Trump sarebbe dipesa dalla libertà che avrebbe avuto di portare i suoi uomini nei ranghi del consiglio. Oppure di estromettere quelli sgraditi, si aggiunge puntualmente all’indomani della cacciata di Steve Bannon dalle commissioni permanenti del consiglio, dove irritualmente occupava una posizione di primo piano. Il parziale demansionamento di quello che con somma voluttà retroscenistica viene raccontato come il Rasputin di Trump non rappresenta una nuova rottura all’interno della Casa Bianca, quanto l’approfondirsi di una dinamica di normalizzazione e ricucitura con l’establishment già in atto. McMaster è uno dei perni del processo di riorganizzazione.
Prima della decisione da prima pagina su Bannon, il militare ha lavorato per portare nel consiglio funzionari di primo livello legati all’establishment repubblicano, andando a pescare nei centri studi dove abbondano falchi e nevertrumpers. Sotto McMaster Fiona Hill, stimata esperta di Russia e solida antiputiniana che viene dalla moderata Brookings Institution, è stata confermata a capo del desk congiunto che si occupa di Europa e Russia (sotto Obama i due ruoli erano separati), mentre l’area dell’Asia centrale e del sud è stata affidata a Lisa Curtis, analista della Heritage Foundation. McMaster ha fatto saltare la nomina del generale di brigata Robin Fontes, che era stato scelto da Flynn. Il Pentagono aveva già reso pubblico il trasferimento dal suo attuale ruolo, attaché della difesa all’ambasciata di Nuova Delhi, al consiglio di sicurezza nazionale. Nella stessa direzione va anche la scelta di Nadia Schadlow, nota analista con una lunga esperienza al Pentagono, come direttrice della strategia. A lei McMaster ha chiesto di ridisegnare il profilo strategico del consiglio di sicurezza.
Con la rimozione di Bannon è stato dato molto risalto sui giornali alla riconquista di influenza da parte del capo dell’esercito, Joseph Dunford, e al responsabile dell’intelligence, Dan Coates, ma è passata quasi inosservata la conquista di uno scranno permanente nel consiglio da parte di Dina Powell, che ha lavorato al dipartimento di stato sotto George W. Bush, è stata a Goldman Sachs per quindici anni, poi è diventata consigliere particolare di Ivanka e da lì è passata al consiglio per la sicurezza nazionale. Il lavorio dietro le quinte di McMaster non va sottovalutato nella vicenda del ridimensionamento di Bannon, che è anche la storia del riallineamento degli apparati di sicurezza con la logica dell’establishment. D’altra parte, McMaster non può certo vincere tutte le battaglie interne. Voleva cacciare il giovanissimo direttore per le attività d’intelligence, Ezra Cohen-Watnick, nella quota dell’ala populista, ma Bannon è intervenuto personalmente per salvarlo. Cohen-Watnick ha mantenuto la poltrona anche quando il suo nome è uscito in relazione al caso di David Nunes, il capo della commissione Intelligence alla Camera che ha visto – e immediatamente riferito al presidente – presunte prove dello spionaggio ai danni di Trump ordito dall’intelligence obamiana. Dopo settimane di strenua resistenza, ieri Nunes si è fatto da parte nell’inchiesta sui rapporti fra l’entourage di Trump e il Cremlino.
Lo scontro con Kushner A corredo delle aperture verso l’establishment, circolano ormai incontrollate le voci di una guerra aperta fra la tribù populista di Bannon e quella moderata e pragmatica di Jared Kushner. Quando Roger Stone – il vecchio mastino di Trump – va nel programma di Alex Jones – l’araldo complottista del trumpismo – a spiegare che Kushner sussurra voci infamanti su Bannon all’orecchio degli odiati media mainstream significa che la fase della pretattica è finita, e si passa all’azione. E’ lecito aspettarsi presto una reazione contro Kushner, che sta vivendo il suo momento di affermazione totale sulla scena, con l’attribuzione di sempre nuovi e variegati dossier nel suo già ampio portfolio (la due giorni di Xi Jinping a Mar-a-Lago è stata curata personalmente dal genero di Trump, attraverso l’attivissimo ambasciatore cinese a Washington). Non è da escludere che il cambio repentino di Trump sulla Siria, che ieri ha generato voci di un possibile attacco in risposta alla strage con le armi chimiche, sia anche frutto delle pressioni di Kushner, che su molti temi si trova in linea con la triade militare che tende a trascinare Trump su posizioni più tradizionali per i conservatori. Al di sopra di McMaster agisce il capo del Pentagono James Mattis, e al di sotto si muove il capo del dipartimento della Sicurezza nazionale, John Kelly, quello che l’altro giorno, mentre tutti gli sguardi erano puntati sul dramma del consiglio di sicurezza, ha ammesso che la costrizione di un muro fisico che copra interamente il confine con il Messico è “improbabile”.
Un ultimo aspetto va ricordato per inquadrare l’inciampo di Bannon. Il superconsigliere non è un uomo di Trump, e pur essendosi guadagnato la fiducia del presidente non ha il marchio né l’imprinting della tribù trumpiana. E’ un protetto della famiglia Mercer, i grandi finanziatori dell’operazione Trump, messo al centro degli ingranaggi dell’Amministrazione. Il suo legame con il presidente è cementato dalla comune visione di una rivoluzione populista e jacksoniana, e dunque è incredibilmente solido, ma non indissolubile.