Chi è Nikki Haley, il volto del blitz americano contro l'impunità di Assad
Un profilo dell'ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, che è diventata la portavoce dell'azione americana in Siria
Milano. “Siamo pronti a fare di più”, ha detto Nikki Haley, ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, commentando il blitz alla base siriana ordinato dall’Amministrazione Trump in risposta all’attacco chimico del regime di Damasco. Tutti vogliono pensare che il raid notturno sia stato un atto isolato, necessario e proporzionato e comunque limitato, e invece la Haley non abbassa il suo sguardo fiero, e dice: se serve, andremo avanti, e se serve andremo avanti da soli. Haley, ex governatrice di origini indiane della Carolina del sud, non è una trumpiana della prima ora (faceva il tifo per Marco Rubio) e anzi, in più occasioni, ha detto che per ottenere risultati bisognerebbe smettere di blaterare e “abbassare il volume”, come per richiamare Trump a maggior compostezza. In più la Haley è considerata tra le più “falche” nei confronti della Russia, a differenza di molti colleghi, ma in questi giorni è diventata molto di più: il volto di questa operazione anti Assad, che serve a comunicare al dittatore di Damasco di non dare più per scontata la scappatoia dell’impunità.
Prima di lei, il “dovere morale” di fermare la brutalità di Assad era nelle mani di Samantha Power, cioè la paladina della lotta umanitaria contro i dittatori e i genocidi, l’autrice di un libro splendido, “A problem from hell”, in cui si teorizzava e raccontava la potenza del saper dire “mai più” ai crimini umanitari, e la necessità di mantenere fede alla propria parola. Quando nel 2013 l’Amministrazione Obama, sconvolta dall’attacco chimico di Assad a Ghouta, annunciò una ritorsione, fu la Power a pronunciare il discorso più ispirato e completo sull’inevitabilità di quell’intervento (il secondo in classifica fu il discorso dell’allora segretario di stato John Kerry, che denunciò “un’oscenità morale” intollerabile): pochi giorni dopo, il presidente Obama si convinse che un blitz fosse eccessivo, e la linea rossa dell’utilizzo delle armi chimiche divenne un “mai più” tragicamente violato. Si disse allora che la Power fece di tutto per convincere il suo presidente, che fu messa all’angolo dai falchi del realismo, ma quel non-intervento rimase come una macchia addosso alla Power, e tutti i suoi interventi successivi all’Onu, contro Assad e soprattutto contro la Russia, sono diventati il simbolo dell’impotenza strategica dell’Amministrazione Obama.
Haley non aveva una carriera da “genocide chick” da difendere né alcuna lealtà da dimostrare o far valere, ma quando è andata nell’aula onusiana mostrando le immagini dei bambini siriani gasati tra le mani, facendo pause lunghe con le labbra serrate per non incrinare la voce, spiegando che quello era uno scempio inaccettabile e che l’America era pronta a reagire anche in modo unilaterale visto che l’azione collettiva era sempre stata rifiutata dai suoi colleghi, è parso chiaro che l’approccio dell’Amministrazione Trump stava cambiando. Haley è diventata la portavoce di questo assalto della realtà dettato dall’ennesima brutalità assadista, e mentre tutti cercano di capire se l’intervento finisce qui, lei insiste sulla necessità di non lasciare che certi crimini passino senza conseguenze, e lo fa con quel suo tono calmo con cui in passato ha imparato a difendere anche se stessa dalle prevedibili e pur sempre dolorose accuse di continue infedeltà.