Come potrebbe essere la Turchia se Erdogan vincesse il referendum di domenica
Poteri sproporzionati al presidente, che gli consentirebbero di governare quasi senza contrappesi fino al 2029. Cosa dicono i sondaggi
Roma. Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, sembra ormai un generatore a getto continuo di dichiarazioni incendiarie sulla politica interna ed estera del suo paese. Anche se le sue intemerate sono parzialmente uscite dal ciclo delle news in occidente, dopo lo scontro diplomatico con i Paesi Bassi e la Germania, la loro frequenza è semmai aumentata: domenica si celebra il referendum costituzionale che per Erdogan è il culmine di una carriera ventennale, e il presidente turco non sta lasciando niente di intentato per mobilitare i suoi elettori. Prendiamo gli ultimi esempi, scelti da un archivio ormai sterminato: “L’Europa è un continente finito, marcio”, è un “centro di oppressione, violenza e nazismo”. “L’occidente sta facendo campagna aperta per il ‘No’” (dunque contro Erdogan). Ce n’è anche per gli avversari interni: l’ultimo di questi, dopo le azioni repressive che hanno spazzato via l’Hdp, partito democratico curdo, e messo in prigione i suoi leader, è Kemal Kilicdaroglu, vecchio politico d’establishment e leader del Chp, partito kemalista laico e principale forza dell’opposizione. Kilicdaroglu ed Erdogan negli ultimi giorni si sono scontrati in maniera dura, accusandosi a vicenda di avere ordito il colpo di stato del luglio scorso: Erdogan ha detto che il capo del Chp si era messo d’accordo con le forze golpiste per ottenere un lasciapassare, Kilicdaroglu ha accusato Erdogan di aver inscenato o quanto meno controllato il tentato golpe per poter scatenare la repressione che effettivamente è seguita. Accuse parimenti gravi, con la differenza che Erdogan ha scatenato contro il Chp i media governativi in una campagna violenta che dura da giorni.
L’intensità senza precedenti della campagna referendaria di Erdogan ha una ragione semplice: il presidente della Turchia non può permettersi di perdere il referendum per il cambiamento dell’assetto dello stato, ultima fase di una strategia politica che dura da almeno un decennio e che ha visto la sua prima forma esplicita già nel 2011, nel manifesto elettorale del partito Akp, fondato da Erdogan, alle elezioni di quell’anno. La riforma costituzionale è anche la ragione per cui Erdogan ha costretto il paese a ben due elezioni nel 2015: nella prima, a giugno, l’Akp non aveva ottenuto la maggioranza necessaria per approvare la riforma, che anche così ha comunque avuto bisogno di una conferma tramite il referendum che si sta per celebrare.
Il punto fondamentale della riforma costituzionale è la trasformazione della Turchia in una repubblica presidenziale, in cui il potere esecutivo è trasferito dal primo ministro (attualmente il fedelissimo Binali Yildirim) al presidente (Erdogan stesso, è ovvio). Ma i turchi devono decidere in tutto su 18 emendamenti, che modificano profondamente gli assetti dello stato turco e l’equilibrio tra i poteri.
Con il nuovo sistema, il presidente turco sarà al tempo stesso il capo dello stato e il capo del governo. Potrà essere anche capo del partito di governo, in quanto la nuova legge consente al presidente di passare da figura super partes a parte integrante della lotta politica. Al momento di diventare presidente, Erdogan ha dovuto abbandonare l’Akp, ma dopo il referendum potrà farvi di nuovo ingresso. Come la presidenza diventa esecutiva, così sparisce la figura del primo ministro: per questo e altri cambiamenti c’è un periodo di transizione che si conclude il 3 novembre del 2019, tra due anni. In quel giorno sono previste tre elezioni concomitanti, locali, legislative e presidenziali, tutte da tenersi in base al nuovo sistema. La riforma, inoltre, amplifica enormemente i poteri del presidente, che avrà il potere di nominare i ministri senza il consenso del Parlamento, avrà facoltà ampliate di nomina di governatori e pubblici ufficiali, potrà dissolvere il Parlamento a suo piacimento (provocando però al tempo stesso il decadimento della sua carica) e avrà poteri determinanti sulla formazione della legge di Budget. La nuova norma dà al presidente il potere di nominare quasi il 70 per cento dei giudici (ora ne nomina meno della metà) e riduce o elimina del tutto le funzioni di controllo del Parlamento sul potere esecutivo. Il presidente potrà essere messo sotto impeachment dal Parlamento, ma solo in casi molto limitati. La legge aumenta da quattro a cinque anni la durata della carica del presidente, e resetta il limite dei mandati: Erdogan è già stato eletto capo dello stato una volta, ma nel 2019 potrà rinnovare il suo incarico per altri due mandati, rimanendo al potere fino al 2029. Il numero dei parlamentari, infine, sarà aumentato da 550 a 600 e l’età per essere eletti si abbasserà da 25 a 18 anni.
Insomma, la riforma costituzionale che i turchi voteranno domenica non cambia solo l’assetto istituzionale del paese, ma dà alla figura del presidente poteri sproporzionati. I sostenitori della riforma dicono che sono simili a quelli di cui gode, per esempio, il presidente degli Stati Uniti, ma i critici sottolineano che in Turchia mancherà del tutto il sistema rigido di pesi e contrappesi democratici che vige in America. Erdogan estenderà il suo dominio sulla Turchia indefinitamente (nel 2029 avrà 75 anni e sarà al potere da 27 anni), e il leader turco, è noto, ha dimostrato con le parole e i fatti il suo scarso interesse nei confronti del mantenimento di un sistema democratico.
In assenza di una serie storica di risultati, è quasi impossibile prevedere se è in vantaggio il Sì (pro riforma) o il No (contro la riforma). Vista la potenza di fuoco messa in campo dal governo e dai media, gli esperti internazionali scommettono in coro che Erdogan alla fine otterrà il suo scopo. Ma gli analisti turchi dicono che potrebbero esserci delle sacche di resistenza non ancora individuate (per esempio tra i ribelli del partito nazionalista Mhp, che ha votato la riforma costituzionale con l’Akp ma registra lo scontento di molti dei suoi membri). Per ora i sondaggi sono molto bilanciati: secondo gli analisti dell’agenzia Gezici, il Sì è al 53 per cento.
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