Popolo contro individui, ecco la vera sfida
La forza simbolica di Le Pen e Mélenchon è considerare la Francia un’entità politica. Macron, per quanto si sforzi, lancia un programma post politico e liberale, con poca identità. Sarebbe una rivoluzione la sua, ma è fragile
La Francia è in dirittura d’arrivo. Domenica sapremo chi sopravvive per il duello finale tra quella che vuole rimettere il paese in ordine (Marine Le Pen), il candidato sfortunato che “è tempo di avere un gaullista a capo dello stato” (François Fillon), il rivoluzionario che si è preso la sinistra con snobismo oratorio e programmi da sballo come la tassa al 100 per cento oltre la soglia dei 400 mila euro di reddito annuo (Jean-Luc Mélenchon), e il riformatore pragmatico europeista e globalista che non è di destra né di sinistra e un po’ tutte e due (Emmanuel Macron). Molti, quasi tutti, dicono e scrivono che è in atto un assalto alla politica, alle élite, all’establishment. Che la situazione è critica perché, dopo due quinquennati fallimentari di un gaullista anomalo e di un socialista piuttosto floscio (Sarkozy e Hollande), affonda ormai la tradizionale egemonia dell’alternanza destra sinistra dei partiti che uniscono in nome della storia e della politica, i partiti ressemblement di cui gaullisti e socialisti sono stati l’incarnazione per decenni. E’ venuta l’ora, dicono, di un trumpismo in salsa francese: proletari o redditi fissi dell’industria e contadini sono eserciti di dimenticati della società aperta di mercato, e si radicalizzano nel voto e nei comportamenti sociali in nome di un disagio che respinge e sovverte il sistema “au nom du peuple”, come recita uno degli slogan del Fronte nazionale. Il tutto complicato, nonostante la efficace ricongiunzione della sua immagine a quella mainstream di candidato-come-gli-altri, dalla cosiddetta ideologia francese, il fascismo aux couleurs de la France di cui parlava in un vecchio pamphlet del 1981, una specie di fondazione antemarcia del correttismo politico, Bernard-Henri Lévy. Inutile aggiungere che il dramma della mancata integrazione dell’islam francese e del terrorismo e dell’insicurezza che ne deriva aumenta a dismisura il fascino dell’identitarismo.
Tutto abbastanza vero, a parte gli eccessi del colore giornalistico che oscurano il “benessere nel disagio” di un paese in cui si lavora poco e si godono benefici molto notevoli di servizi statali efficienti e l’attaccamento dell’esprit commerçant nazionale, così radicato e diffuso, alla moneta forte dell’euro, che pochi vorrebbero convertita a un franco svalutato e caotico.
Ma c’è un altro punto critico da segnalare, quanto allo stato d’animo e alla forma stessa dei fenomeni che percorrono questa strana, interessante, inedita campagna elettorale. In Francia non è in atto un fenomeno di antipolitica ma di iperpolitica. L’attacco all’establishment è portato in nome della sovranità, dello stato e dei suoi confini, della cittadinanza, dei diritti legati alla terra e al sangue, della cultura nazionale e del suo classico rayonnement o irradiamento universalista. Questo è Marine Le Pen, al di là della hargne, della lagna aggressiva che colpisce le conseguenze economiche dell’Unione europea e il comportamento delle élite passate negli ultimi anni, come scrive Marcel Gauchet, dalla rappresentatività sovrana della noblesse d’Etat a una sorta di “privatizzazione morale e sociale” del loro modo di essere. Il segreto francese del conflitto, reso emblematico e un poco mistificato come montante contrasto tra populismi e apparati di stato nella assemblea di Coblenza di tutti gli sfigati d’Europa, è in questa forza simbolica di un discorso pubblico che considera il popolo un’entità politica, non un’orda populisteggiante ma il partner elettivo di un nuovo incontro personale con chi si propone alla guida dello stato, il contrario di una somma di individui o di gruppi sociali uniti dal loro ruolo di consumatori, di utenti, di soggetti anonimi dell’economia globalizzata che compie la storia, magari attraverso l’idolo delle nuove tecnologie della comunicazione, del web, del numérique, e che non può più essere trascesa.
Macron è ancora il candidato con le maggiori probabilità di superare il primo turno per la presumibile sfida con la Le Pen, ma non si sa mai di questi tempi: è in fondo lui il banditore dell’antipolitica. Ieri a Bercy, Parigi, in un palacongressi affollato e tonitruante, ha cercato di usare toni popolari e nazionali, francesi, e ha celebrato le sue radici di provinciale venuto dalla Piccardia. Ma l’immagine anche ieri prevalente è alla fine un’altra. Macron si autocomprende come superamento della dialettica destra-sinistra, e dell’idea invecchiata di alternanza. Si presenta come uomo della società più che dello stato, e ai suoi titoli di meritocrate da enarca o superamministratore accoppia quelli di banchiere e di tecnocrate. Non parla au nom du peuple ma intende “offrire a tutti una chance”, richiamo eminentemente individualista e liberale nutrito di ansia da rinnovamento generazionale. Il suo programma è di un pragmatismo moderato che suona governativo e continuista ma tende a incardinare il paese fino in fondo nell’Europa del commercio e del diritto bruxellese e nel mercato mondiale dello scambio in nome dell’efficienza. La sua postura personale (età, storia, matrimonio, cultura, lingua inglese, curriculum) è al di là della politica tradizionale, e il suo movimento En marche! è giovane di appena un anno, un nourisson, un bebè che ha bisogno di essere nutrito mentre i produttori di latte, gli allevatori, i francesi de souche, gli autoctoni, sono in gran maggioranza acquisiti al voto lepenista.
Tony Blair si era preso il Labour, facendone il New Labour. Matteo Renzi si era preso il maggiore partito della sinistra democratica, il Pd, facendone il Partito di Renzi. I riformisti europei finora erano passati per la cruna d’ago della politica di partito. Macron, se vincesse, sarebbe una rivoluzione culturale enorme, specie nel paese che la destra e la sinistra le ha inventate alla fine del Settecento, sarebbe un caso di depoliticizzazione in marcia in nome della tecnica e della soluzione giusta in una Francia che politica e stato li ha nel sangue lungo tutta la sua storia moderna, da cinque secoli. Qui è la sua forza e qui la sua fragilità.
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