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Theresa May infierisce con il voto anticipato contro il fronte anti Brexit

Paola Peduzzi

Il Primo ministro approfitta della debolezza degli avversari e soprattutto del laburista Corbyn, che rischia tutto.

Dalla nostra inviata a Digione, Francia. Theresa May dice che ha preso la decisione in modo riluttante, ma in realtà pregusta da un po’ l’effetto che fa un esercizio così brutale della propria leadership. Dopo aver detto per mesi che non sarebbe andata a elezioni anticipate, il premier britannico ha indetto un voto per l’8 giugno, cinquanta giorni di campagna elettorale, un tempo ridottissimo per evitare che il vantaggio raccolto da quando è premier – il luglio dell’anno scorso – possa in qualche modo ridursi. Il mandato popolare darebbe alla May quella forza decisiva che ancora le mancava, non essendo stata eletta lei nel 2015 ed essendo stata, durante la campagna referendaria per la Brexit dello scorso anno, tiepidamente europeista. Ma la May non si sarebbe mai decisa in questo senso se attorno a lei non fossero collassati tutti gli altri suoi oppositori: cauta com’è, il premier non voleva introdurre elementi di instabilità durante i negoziati con Bruxelles sull’uscita dall’Ue, non nei prossimi due anni delicatissimi in cui bisogna valutare quanti compromessi si è disposti ad accettare per non arrivare all’ipotesi peggiore di tutte, il “no deal”. Ma tra le pressioni interne di un governo un pochino litigioso e soprattutto di fronte all’incapacità dei partiti rivali di organizzare una controstoria plausibile all’inevitabilità della Brexit, la May ha deciso di correre il primo grande rischio della sua carriera. Tony Blair, ex premier laburista che in quanto a leadership ci capisce abbastanza, aveva detto la settimana scorsa che la May avrebbe potuto scegliere di andare al voto anticipato “in qualsiasi momento”, sicura com’era dell’impotenza acclarata dei suoi avversari.

 

Non si tratta solamente di sondaggi, nei quali comunque il Labour, principale forza d’opposizione ai conservatori della May, viaggia con un distacco di almeno 15 punti percentuali (se non di più: l’ultima rilevazione YouGov, dà i Tory al 44 per cento e il Labour al 23, ventun punti percentuali di scarto) quanto piuttosto dell’inconsistenza ideologica che, soprattutto sulla Brexit, ha dominato la retorica laburista in questi primi passaggi del negoziato sull’uscita dall’Unione europea.


Fonte YouGov


Per Jeremy Corbyn, leader del Labour, questa elezione può essere la fine di tutto, quel momento della verità che lui stesso ha invocato molte volte rimandandolo però all’infinito – soprattutto nel confronto parlamentare sulla Brexit. Per gli scozzesi, che vogliono un altro referendum sull’indipendenza per restare europei, questo voto non è un vantaggio: se si rafforza la May, si indebolisce il fronte già non solidissimo degli independentisti, che temono un’altra sconfitta. Per l’Ukip, che è in mezzo a una guerra interna sanguinosa, un voto non può che radicalizzare i più radicali, ed elettoralmente l’esito potrebbe non essere vantaggioso. L’unica vera chance di far rimpiangere alla May questo atto di forza in perfetto stile thatcheriano – la Lady di ferro fece la stessa cosa nel 1983 e nel 1987: elezioni amministrative a maggio, come avviene quest’anno, il 4, ed elezioni generali a giugno – è nelle mani di un partito che ancora non c’è, pur se ci si lavora da tempo.

 

E’ il fronte anti Brexit, il cosiddetto partito del “48 per cento”, dalla percentuale ottenuta dal “remain” al referendum dello scorso anno. I liberaldemocratici fin da subito hanno tentato di animare questa nuova forza, ma partivano da una base misera, essendo stati quasi annullati dal voto del 2015. Ma sia Tim Farron, il leader dei Lib-dems, sia il più noto Nick Clegg, ex leader che ora si occupa di Brexit per il partito, hanno iniziato una charme offensive europeista che si allarga anche sul continente e che tenta di attrarre i laburisti insofferenti rispetto a Corbyn e i conservatori anti Brexit. Quest’operazione è ideologicamente coperta da Blair e dai blairiani e per conoscerne idee e ispirazioni basta leggere ogni settimana il New European, un giornale che doveva durare massimo sei settimane e che ora è diventato l’organo (aggressivissimo) degli anti Brexit. Molti addetti ai lavori dicono che il processo di creazione di una nuova forza politica contro l’uscita dall’Ue è più avanzato di quel che si creda, ma ancora non è chiaro se lo slancio sarà delegato ai liberaldemocratici o piuttosto all’ala moderata del Labour che potrebbe, in un colpo solo, emanciparsi dalla definizione di “corrente minoritaria” e disfarsi di Corbyn. Creare un partito dal nulla non è facile – non è impossibile però, e il primo test arriva domenica in Francia con Emmanuel Macron – e soprattutto manca ancora la figura di un leader. Si pensava che ci fosse tempo per le consultazioni, ma ora May impone un’accelerazione. Sette settimane per organizzarsi sono poche, anche se in realtà gli anti Brexit sono già molto collegati tra loro: forse per questo il premier ha avuto tanta fretta.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi