Anche la pacifica Indonesia fallisce un grande test sull'islam politico
Il governatore uscente di Giacarta, cristiano e cinese, perde contro il rivale musulmano. Tutta colpa di un versetto del Corano
«Non ce la prendiamo con loro perché sono cristiani. È perché sono cinesi». Così una gentile guida turistica dell’isola indonesiana di Lombok spiegava la recente ondata di violenza. Era il 1998, l’anno della caduta del presidente Suharto, al potere dal 1965. Il regime finiva com’era iniziato, quando Suharto aveva massacrato la popolazione sino-indonesiana accusandola di far fronte con i comunisti guidati da Mao.
Dei 245 milioni della popolazione indonesiana, l’88% è di etnia Malay e religione islamica, il che fa dell’Indonesia la più popolosa nazione musulmana. Il 9% di religione cristiana. Solo il 2% è di etnia cinese. Ma detiene una percentuale molto maggiore nei 900 miliardi di dollari dell’economia. Il che ne fa un comodo capro espiatorio per tutti i problemi nazionali.
È cinese ed è cristiano Basuki Tjahaja Purnama, 51 anni, più noto come Ahok (soprannome dell’etnia Hakka, originaria del sud della Cina) governatore di Giacarta, clamorosamente sconfitto al secondo turno delle elezioni per il rinnovo della carica che si sono svolte oggi. I risultati ufficiali saranno comunicati a inizio maggio, ma secondo i conteggi ufficiosi Ahok ha ottenuto il 42% dei voti, mentre il suo avversario Anies Baswedan è al 58%. Al primo turno, il 15 febbraio scorso, Ahok aveva il 43% delle preferenze, Baswedan il 39. Su di lui sono confluiti i voti degli altri candidati musulmani.
Si conclude così quella che il “Giacarta Post” ha definito la campagna elettorale “più sporca, radicalizzata e controversa” che l’Indonesia abbia mai visto. Un’elezione che secondo molti osservatori era un test per la democrazia indonesiana, un banco di prova per la sua tolleranza religiosa. «Credo che sarà una cartina di tornasole per l’Islam indonesiano: siamo tolleranti o intolleranti?» aveva dichiarato Tobias Basuki, ricercatore del Centre for Strategic and International Studies.
La sconfitta di Ahok, quindi, sembra segnare la sconfitta della tolleranza, dello stesso concetto che era alla base della democrazia indonesiana, espresso nel motto nazionale: “Bhinneka Tunggal Ika”, “Unità nella diversità”. Ma non è stata la sua “doppia minoranza”, di cinese e cristiano, a determinare la sconfitta di Ahok. Non in senso stretto. Sino all’ottobre scorso, infatti, i sondaggi lo davano per favorito con una maggioranza di quasi il 75%. La nuova classe media di Giacarta, dove si concentra il 70% del capitale nazionale e si produce il 17% del Pil, ne apprezzava lo stile decisionista, moderno, la trasparenza di governo, il contrasto alla burocrazia e gli sforzi per migliorare i trasporti pubblici di una megalopoli soffocata dal traffico.
La sconfitta di Ahok è stata provocata dall’aver osato citare il Corano pur essendo cristiano. In un comizio del settembre scorso, infatti, Ahok aveva dichiarato che alcuni cittadini non lo avrebbero votato perché condizionati da un versetto del Corano. Si riferiva al versetto 51 della al-Maʼida, la quinta sura del Corano. Che recita così: “O voi credenti, non prendete come alleati gli ebrei e i cristiani”. Secondo molte interpretazioni proibisce ai non musulmani di avere ruoli di comando in paesi islamici. La dichiarazione di Ahok, diffusa in un video su YouTube divenuto virale, gli è costata una denuncia per blasfemia. Se giudicato colpevole, potrebbe essere condannato a cinque anni di carcere. Il processo è stato rimandato a dopo le elezioni (riprenderà nei prossimi giorni), ma dall’ottobre scorso quell’accusa è stata il pretesto per manifestazioni di massa. Nello stesso mese il Concilio indonesiano degli Ulema, ha infatti emanato un editto dichiarando “haram”, proibito, per i musulmani votare un non musulmano. A quel punto, il cinese Ahok è stato presentato come la resurrezione del diabolico nemico dell’Islam che negli anni ’50 e ’60 era incarnato nei comunisti indonesiani, influenzati dai cinesi senza dio che combattevano contro i partiti nazionalisti musulmani. Le organizzazioni islamiche hanno colto l’occasione per accrescere il potere in una nazione in cui si stava affermando una democrazia laica. Secondo Tobias Basuki è stato un tentativo di “dirottare l’Islam indonesiano da parte dell’Islam radicale”. Il governo del presidente Joko “Jokowi” Widodo, è infatti sostenitore di una legge che promuove la libertà religiosa, caso unico nel mondo islamico. Lo stesso Jokowi era il maggior sostenitore di Ahok, suo vice quando era governatore di Giacarta, succedutogli quando è divenuto presidente, nel luglio del 2014.
Secondo molti analisti, del resto, le elezioni per il governatore di Giacarta sono considerate una sorta di prova generale per le presidenziali. Se il settarismo riesce a prevalere nella capitale, città cosmopolita che sembrava aver subito l’influenza della comunità dei bulé, gli stranieri che vi si sono stabiliti per lavoro, e dove ha preso vita la nouvelle vague culturale indonesiana, sembra molto probabile che gli integralisti islamici possano vincere le presidenziali del 2019.
Il prossimo avversario di Jokowi potrebbe essere proprio il neo governatore di Giacarta Anies Baswedan, che pare aver messo in ombra anche il suo grande padrino, l’ex generale Prabowo Subianto, sconfitto da Jokowi nel 2014. Baswedan, 47 anni, ex ministro dell’educazione nel governo Jokowi (poi rimosso nel rimpasto del 2016), accademico incluso nella lista di “Foreign Policy” dei 100 intellettuali più influenti al mondo, incarna la figura di un nuovo integralismo islamico che può attrarre anche le parti più colte del paese, quelle che si richiamano ai cosiddetti “valori asiatici” e cercano di coniugare tecnocrazia, rigore morale e tradizione in contrasto con oscure “influenze esterne” in cui s’identificano al tempo stesso democrazia, consumismo, omosessualità, corruzione dei costumi, globalizzazione. Non è un caso che gli studenti delle scuole musulmane indonesiane abbiano protestato contro la celebrazione del giorno di San Valentino o che Giacarta si stia proponendo come “zona economica halal”, dove ogni servizio - dai ristoranti, agli alberghi, ai negozi, alle banche - sia “halal”, conforme alle regole islamiche.
E’ in questo complesso scenario che si svolge la visita in Indonesia del vicepresidente americano Mike Pence, a Giacarta il 20 e 21 aprile. Potrebbe rivelarsi un importante sostegno per Jokowi, ma potrebbe anche accentuarne la debolezza. Un passo falso dell’amministrazione statunitense, inoltre, rischierebbe anche di accelerare la tendenza al conservatorismo islamico che si sta diffondendo in Indonesia come in Malaysia e che ha le sue manifestazioni estreme nella crescita del numero di foreign fighters
in Sudest asiatico: secondo le agenzie d’intelligence locali alla fine del 2015 erano tra i 1200 e i 1800. Per lo scrittore indonesiano Eka Kurniawan (il suo ultimo romanzo, “L’uomo tigre” è pubblicato in Italia da “Metropoli d’Asia”) è una manifestazione di “amok”, sindrome culturale del Sudest asiatico che prende nome da una parola malese che indica una follia rabbiosa, una furia violenta.