Chez le communiste
A Digione con il popolo di Mélenchon, che fa il presidente-nostalgia approfittando delle debolezze degli avversari, tra voto “convinto”, toni presidenziabili e piani B sull’Ue
Digione, dalla nostra inviata. Le chiatte sulla Senna diventano pulpiti, i comizi diventano show, l’ologramma diventa dichiarazione di guerra – all’inizio tutti a ridere, e poi il rammarico: perché non è venuto in mente a noi? Jean-Luc Mélenchon sfrutta il suo momento, l’instabilità dei sondaggi, l’indecisione dei francesi e non c’è nessuno qui, in questo palazzetto di Digione dove il candidato della France insoumise s’è presentato in carne e ossa – mentre in sei altre città francesi è andato in onda il suo ormai celebre ologramma – che non pensi davvero che l’Eliseo sia una chance attuabile. “Siamo molto ottimisti”, dicono tre consiglieri, ricordando più volte che la campagna è stata “innovativa”, esperimenti tecnologici mai visti prima, e soprattutto è stata uno stimolo per evitare calcoli e voti utili, “noi cerchiamo un voto convinto”. Sulle idee, sul programma, e nell’ultimo comizio ubiquo prima del voto del 23 aprile Mélenchon ha puntato sul discorso più presidenziabile, cominciando con un messaggio di solidarietà ai suoi avversari che erano nel mirino di un attacco terroristico sventato ieri. I sondaggi registrano l’avanzata di Mélenchon, e anche se l’incubo è un ballottaggio estremo tra Marine Le Pen e Mélenchon, non c’è ancora stata una rilevazione che abbia dato il leader della France insoumise abbastanza avanti da arrivare al secondo turno. Ma le campagne elettorali sono storie, e per questa Francia 2017 la storia è anche un po’ quella raccontata da Mélenchon, pure se è ritrita e vecchia e rivolta al passato – ma questo è già accaduto altrove, la nostra è la stagione della nostalgia. E la minaccia più grande non è tanto o solo che Mélenchon arrivi al ballottaggio, ma quel che accadrebbe se non si qualificasse: quasi la metà del suo elettorato dichiara che al secondo turno non andrà a votare se non c’è Mélenchon, compromettendo così la costruzione di un fronte repubblicano anti estremisti. E’ che anche sugli estremismi, da queste parti, non ci si intende del tutto, visto che il guru della campagna di France insoumise, Manuel Bompard detto “Manù”, spiega che sulla questione europea gli estremisti sono “chi vuole uscire senza nemmeno discutere e chi vuole restare qualsiasi cosa accada”, cioè Marine Le Pen ed Emmanuel Macron.
Con l'Ue c'è un piano A: rinegoziare i trattati. Ma c'è anche un piano B, e il tutto sembra una Frexit solo più trascinata
In mezzo a questo popolo mélenachoniano che aspetta il proprio leader recitando slogan avvizziti eppure sentitissimi, l’azzardo di un “voto convinto” è già vita vissuta: è stato ritrovato l’entusiasmo, e il riferimento è in particolare alla delusione socialista dell’hollandismo. Molti nel 2012 avevano votato per il presidente François Hollande, non perché fossero d’accordo, spiegano, ma perché era chiaro che Mélenchon non sarebbe arrivato al secondo turno. C’era bisogno di voglia, allora, di mobilitarsi, soltanto questo? Noi ci tormentiamo con analisi culturali e storiche, rileggendo pamphlet pubblicati negli anni Settanta perché improvvisamente sono diventati programma di governo per il 2017 francese, e qui conta esclusivamente l’entusiasmo? Dev’essere l’età, forse. I giovani contano molto, tra gli elettori ma anche nello staff: Bompard ha trent’anni, la fama di lavoratore indefesso e di matematico sopraffino e l’aria stanchissima – questa France insoumise sta tenendo svegli un po’ tutti. Bompard ha contribuito alla creazione della strategia internettiana, molto Twitter e tantissimo YouTube, e il pubblico nel palazzetto che ha atteso l’arrivo di Mélenchon ascoltando versioni francesi di canzoni tipo quelle dei Modena City Ramblers è molto variegato ma certo non anziano.
Anche se uno dei leader d’ispirazione è un vecchietto con i capelli bianchi e gli occhiali iconici che si chiama Bernie Sanders, presso la cui corte alcuni dello staff di Mélenchon sono andati a studiare.
I giovani francesi sono molto diversi da quelli inglesi, che erano straordinariamente contrari alla Brexit e alla solitudine britannica e anzi se la sono presa con i nonni che hanno lasciato loro un paese tanto in bilico. Secondo le ultime inchieste, i giovani francesi hanno voglia di rivoluzione, non ne possono più della cosiddetta classe dirigente tradizionale, occhieggiano al Front national perché si sentono accolti, e occhieggiano a Mélenchon perché qui in Francia non c’è una macchina di partito pronta a fermarlo come è accaduto a Sanders. Il Partito socialista “è imploso”, la destra gollista pure non se la passa benissimo, e per questo “la fiducia e la pazienza della rivoluzione dei cittadini” ha preso tanto piede.
Il candidato della France insoumise sceglie per il suo ultimo comizio i toni più presidenziabili, sorride molto e parla a braccio
Il popolo: quante volte si sente ripetere questo mantra del popolo. L’arma degli “indomiti” francesi è questa: noi siamo il popolo, noi non ci sottometteremo. Anche l’Europa, quando è rivolta ai popoli, è un valore cui rifarsi, peccato che “ha rifiutato i principi di pace e di solidarietà”, ha ricordato Bompard – sostenuto da Gabriel Amard, seduto al suo fianco, che è anche il genero di Mélenchon, compagno della figlia Maryline – e “nel 2005 il popolo francese ha rifiutato il trattato costituzionale dell’Ue salvo poi vederselo imporre dal Parlamento due anni più tardi”. Non siamo noi, è l’Europa insomma che tradisce il proprio spirito, “bisogna rinegoziare tutti i trattati” e poi sottomettere a referendum l’esito del negoziato. Ammesso che il negoziato vada a buon fine, “altrimenti c’è un piano b – spiega Bompard – che vale anche in caso di un voto negativo al referendum: ci uniremo ai paesi europei che durante le trattative hanno mostrato convergenze verso le nostre proposte”. Un piano b è un piano b, “preferiamo la prima strada”, sottolinea Amard, “ma è bene che si sappia che esiste anche un’alternativa”. Pare una Frexit trascinata nel tempo, ma questo paragone non piace, perché l’estremismo appunto è quello di non provarci nemmeno a sedersi a un tavolo, come vuole la Le Pen (che pure ha un po’ mitigato il suo iniziale slancio), o di accettare tutto, come vuole Macron (ma i nomi degli avversari questi consiglieri non li pronunciano mai, lo fa soltanto Mélenchon dal palco e nessuno raccoglie più fischi di Macron). S’è tutto confuso, e Mélenchon sul palco va fiero di un articolo uscito sul Monde in cui si stabilisce, da un punto di vista filosofico (al quale Mélenchon è molto dedicato, parla tantissimo di saggezza e si autocita con soddisfazione), che il movimento della France insoumise “è antitotalitaria”. E’ la risposta alle accuse di “comunista” e anche, soprattutto, alla laison con la Russia e con i suoi alleati, e anche se Mélanchon è un bravissimo oratore questa questione della difesa dell’umanità e del popolo non sottomesso scricchiola parecchio quando si parla di politica internazionale.
Il "voto convinto"invece che il voto utile, il "programma più dettagliato" e gli ologrammi: "Siamo davvero ottimisti"
Si vota domenica e i commentatori sono paralizzati dalla retorica dell’indecisione, che in queste stanze zeppe della “fi” che fa da simbolo alla France insoumise (è la lettera greca che è anche simbolo della proporzione aurea, dell’armonia assoluta), appare come l’occasione che si stava aspettando. I giornali riportano le frasi degli elettori che dicono che sceglieranno quando sono lì, nel segreto dell’urna, non prima, mentre sono già iniziate le analisi sociologiche su quanto la volontà elettorale sia condizionata dai sondaggi (e non viceversa) e il voto utile sia una tortura quasi surreale. Basta vedere la copertina di Libération ieri, con delle linee tracciate a mano e poi cancellate per provare a capire che cosa conviene adesso, votare François Fillon se si è di destra, votare Emmanuel Macron se si è moderati, votare Mélenchon se si è di sinistra, oppure no, provare a votare chi può essere il candidato vincente, come a una corsa di cavalli in cui i bookmakers sono decisivi, quasi più delle bestie che corrono. Fare il calcolo perfetto e riferirlo agli indecisi, questa è l’ambizione oggi dei media francesi, e il risultato è un ghirigoro altrettanto perfetto, perché hai voglia a incrociare i dati e le linee econometriche, la campagna presidenziale per l’Eliseo è “inedita”, e non c’è alcuna risposta alla domanda: se non voto chi mi piace al primo turno, quando mai voterò liberamente? E’ la forza del messaggio di Mélenchon, un messaggio di risulta, ma che nell’apatia è risuonato più forte di quanto ci si aspettasse: date un voto convinto, e andrà tutto bene, non fidatevi dei media (e il Monde è comunque “di centro destra”, secondo Mélenchon, quindi va ignorato, con buona pace di chi vuole superare il clivage tra destra e sinistra nel paese che quel clivage l’ha inventato).
E sì che la scelta, per i francesi in teoria, è molto facile: liberali contro illiberali, europeisti contro antieuropeisti, globalizzatori contro protezionisti, cosmopoliti contro sovranisti. Da tempo nel mondo occidentale ci si divide lungo queste linee, ma se nei voti – negli accidenti – dello scorso anno, tra la Brexit e Trump, i confini della decisione si erano confusi, perché c’era di mezzo l’euroscetticismo cronico degli inglesi e l’odio per una dinastia clintoniana troppo ingombrante, in Francia il contesto era ben più lineare. Non è certo un caso se da mesi non si fa che dire che la salvezza dell’Europa intera dipende dalla scelta dei francesi – sciagura assoluta, certo, ché l’europeismo francese non è mai stato particolarmente generoso – e se i giornali sono pieni di analisi pensose sulla tenuta dell’ordine liberale. Non ci si immaginava che i due partiti tradizionali sarebbero implosi, con gli scandali d’avidità del gollista Fillon e l’opacità irrimediabile di Benoît Hamon, ma questo se possibile ha reso la scelta ancora più semplice: di liberale in corsa è rimasto soltanto Macron (e sì, non bisogna sottostimare Fillon, ormai lo dicono tutti, ci sono anche due sondaggisti che ricordano da vicino i dodici ragazzi che lavoravano a Sant Antonio per Trump con un sistema di profiling tutto nuovo e che lo davano vincente quando il resto del mondo gli rideva dietro: ci sarà del vero nella resilienza filloniana, allora).
La caccia agli indecisi è apertissima, per Mélenchon è l'arma di fine campagna, per tutti gli altri (media compresi) è disperazione
Qui non si sottostimano gli avversari, ma si guarda avanti, alla Quinta Repubblica da riformare, alla sicurezza ambientale da conservare almeno quanto quella contro il terrorismo, con l’orgoglio di aver sempre pensato ai più deboli, contro le imposizioni esterne, contro l’Europa ma anche contro la Nato, con la fierezza di un programma che “così preciso e dettagliato e discusso non ce l’ha nessuno”, Mélenchon non ama essere paragonato a Marine Le Pen, ma allo stesso tempo non ama essere definito di “estrema sinistra”, cioè vuole essere unico e senza etichette, per diventare pure lui calamita di voti insperabili. A guardare e ascoltare il suo pubblico, Mélenchon ha ridato vitalità a una campagna che, per un pezzetto di Francia, era diventata senza entusiasmo e senza alternative: i delusi dal Partito socialista. Ma ce ne sono anche molti altri, di indecisi e di ex apatici, ed è a questi che in questa settimana decisiva parla Mélenchon, preparando una sorpresa per venerdì (un ospite internazionale, dicono i consiglieri senza fornire altri dettagli) lasciando che a correre e dominare sia il furore mélanchoniano, orgogliosamente bolivariano – e infatti Mélenchon non finisce più di parlare e di gesticolare e non si può che sorridere, finché si può, pensando a quel che ha detto Macron, a quel Venezuela senza petrolio che rischia di diventare la Francia. Mentre noi siamo qui, sventurati, ad affidare tutte le nostre speranze europeiste a un popolo che tanto si fa attrarre da tutto ciò che è illiberale.
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