Perché il Papa non nomina mai il Venezuela (e perché invece dovrebbe)
Un paese al collasso dopo anni di guerra al liberismo. Ma Francesco preferisce scrivere al presidente del Brasile, Temer, piuttosto che a Maduro
Mentre il Venezuela piomba ogni giorno di più nella violenza, nella miseria, nell’autoritarismo, il Papa ha scritto al presidente del Brasile, che chiamandosi Temer lo aveva temerariamente invitato a fare una nuova visita nel suo paese. Il rifiuto era nell’aria ed è puntualmente arrivato. Ma Francesco ne ha approfittato per tenergli una severa lezione: “El crecimiento equitativo, gli ha scritto, requiere más que el crecimiento ecónomico”. Non spetta alla chiesa, ha precisato, indicare le ricette per risolvere una crisi così complessa. Ma guai, ha aggiunto alludendo alle politiche del governo di Brasilia, ad attuare “soluciones a la crisis demasiado fáciles y superficiales, que no van más allá de la simple esfera financiera”. E ha concluso pregando la Vergine della Aparecida affinché “proteja al país y al pueblo brasileño de “las fuerzas ciegas y la mano invisible del mercado”.
Lo trovo sconcertante. Non perché provi simpatia per il signor Temer: non ne provo nessuna. Non mi ha mai convinto l’operazione che l’ha portato alla presidenza, lo ritengo immerso appieno nella vasta rete di corruzione che ammorba il Brasile, ritengo drastiche diverse sue misure economiche. Al tempo stesso, non posso fare a meno di riconoscere che ha ereditato un paese in grave recessione dove la spesa pubblica era fuori controllo, l’inflazione in rapida ascesa, come disoccupazione. Cose che, sul piano sociale, fanno molto male. Ma ciò che sconcerta è che nulla di simile Francesco ha mai scritto a Nicolás Maduro, afferrato con unghie e denti al timone di un paese che affonda come il Titanic. Anzi, lo ha perfino accolto in Vaticano credendo a ciò cui la stessa conferenza episcopale venezuelana non credeva più da tempo: alla sua volontà di dialogo.
Peccato, perché se avesse scritto a Maduro, il Papa avrebbe potuto invertire i termini del suo messaggio: scrivere che è impossibile il crecimiento equitativo senza crecimiento económico, definire fáciles y superficiales le politiche del governo chavista negli anni della bonanza petrolifera e invitarlo a fare in futuro più attenzione agli equilibri finanziari. Infine sarebbe stato appropriato pregare la Virgen del Coromoto, patrona del Venezuela, affinché illuminasse il governo di Caracas e lo inducesse a smettere di calpestare la mano invisibile del mercato, poiché il prezzo lo pagano i poveri, com’è sotto gli occhi di tutti.
A Pasqua, il Papa aveva pronunciato una frase importante, sull’America latina. Aveva invocato “il progresso e consolidamento delle istituzioni democratiche, nel pieno rispetto dello stato di diritto”. Parole sante. Non vi sarebbe nulla di strano, se non fosse che tali parole –democrazia, stato di diritto – sono perle rare nel suo vocabolario. Nel farlo, però, non aveva citato casi particolari, tanto da lasciare spazio alle ipotesi più disparate. Molti ammiratori del Papa sono accorsi a tradurlo: non ha fatto nomi, hanno spiegato, perché ci sono crisi in Brasile, Paraguay e tanti altri paesi. Eppure è fin troppo evidente che quella venezuelana è la madre di tutte le crisi, la più grave e profonda.
E che su di essa il Papa è reticente: una reticenza rumorosa per un Papa che non lesina critiche ai governi europei, a quelli cui in America Latina imputa il peccato del “liberalismo economico”, perfino agli imprenditori colpevoli di peccare licenziando. Ma una ragione c’è ed è che il fallimento chavista, quello economico e sociale ancor più di quello politico, è il fallimento del regime che aveva preteso di ergersi a modello di ordine antiliberale, a erede della tradizione populista latinoamericana; che il suo tracollo è anche quello delle ricette e degli slogan con cui il Papa e i suoi eserciti di ammiratori simpatizzano. Non a caso il regime di Caracas era disposto a parlare col Papa ma si negava a farlo coi vescovi venezuelani, che da tempo denunciano la dittatura; proprio come Evo Morales intima ai vescovi boliviani di seguire il Papa, invece di frapporgli ostacoli.
Ma se il Venezuela era un modello, e se tale modello ambiva a guidare la lotta alla “globalizzazione neoliberale” scomunicata dal Papa, è inevitabile che la violenza, la miseria, la corruzione, l’arbitrio, tutto ciò di cui il Venezuela è oggi triste spettacolo, ne trascendano i confini. Il Papa critica Temer, ma il disastro chavista non lo lascia indenne, poiché rivela che demonizzare il mercato è servito a mettere in fuga capitali, paralizzare investimenti, affossare la produzione, causare carestia, rabbia, esilio; tuonare contro la democrazia liberale ad accentrare tutti i poteri e trasformare la dialettica politica in una guerra di religione da cui nessuna istituzione s’è salvata e il cui lascito è l’odio che spacca il paese; e che tutto ciò è avvenuto in nome del pueblo, dei poveri che il regime ha coltivato dilapidando la più grande ricchezza che il Venezuela abbia mai visto nella sua storia. Si capisce che quel pueblo, sempre meno numeroso, sia il popolo di Dio cui va la simpatia del Papa. Ma è proprio invocando il pueblo che lo stato di diritto di cui Francesco chiede ora il rispetto è stato ucciso. Sarà un caso?