Londra ha voglia di sorprese, ma l'unica che conta è quella anti Brexit
Il voto sembra già scritto (dai Tory), ma Corbyn gioca l’arma dell’outsider populista. I passi della “progressive coalition”
Milano. Al primo evento elettorale per il voto inglese dell’8 giugno, Jeremy Corbyn, leader del Labour, ha stabilito le coordinate della contesa: siamo noi contro di loro, il popolo contro “il partito dei ricchi e dei privilegi”. Il trumpismo che vive nell’animo di Corbyn è venuto fuori almeno tre volte, con l’esplicito riferimento al “rigged system”, il sistema corrotto, i media e l’establishment che lavorano contro il Labour dando per scontato l’esito elettorale: Corbyn rivendica di essere un outsider naturale, di averlo dimostrato vincendo la leadership del partito due volte quando nessuno gli dava una chance, e state attenti voi là fuori con i vostri calcoli, ché rischiate di sbagliare di grosso. Corbyn non vuole che questo voto sia una riedizione del referendum del giugno dell’anno scorso, non c’è solo la Brexit, dice, rilanciando i suoi piani per i “dimenticati”, ma sulla domanda centrale – volete un referendum alla fine del negoziato con Bruxelles? – il leader del Labour ha dichiarato che tutte le opzioni sono sul tavolo, ma un suo portavoce nel pomeriggio ha poi detto che no, il referendum finale non sarà presente nel manifesto laburista. Alla fine del discorso di Corbyn – che è stato celebrato da molti come il primo intervento appassionato e visionario del leader del Labour – c’è stato un momento surreale, che un po’ sintetizza la trasformazione del partito dei lavoratori dal 1997 a oggi, vent’anni di fuga verso il futuro e di ritorno al passato, e dice anche molto sullo scontro culturale in corso, non soltanto nel Regno Unito. Corbyn ha citato una frase che era stata sdoganata dall’arcinemico, Tony Blair, quando cominciò la sua impresa di riforma del partito con la riforma della celebre clause IV: “For the many, not for the few”, per i tanti e non per i pochi. Allora era la rivoluzione contro la dittatura dei sindacati, oggi è il ripiegamento sulla versione anni Settanta del Labour, con tanto di musica introduttiva di quegli anni.
Corbyn vuole giocare l’arma dell’outsider che sorprende, ma al momento l’ultimo sondaggio fotografa una realtà quasi definitiva: i Tory sono al 48 per cento, il Labour al 24, la metà. Tutto può accadere – i sondaggisti inglesi hanno un gravissimo problema di credibilità – ma i conservatori aspirano a realizzare il sogno churchilliano di far fuori, per sempre, l’opposizione laburista. I giornali inglesi sono pieni di analisi sulla fine del Labour, mentre c’è già chi dice che Corbyn sta lavorando – è la sua attività principale da quando è leader – alla strategia per restare comunque in sella dopo la sconfitta.
Corbyn ambisce a rilanciare la sua fama da outsider, ma la sorpresa, se ci sarà, a questo voto potrebbe non riguardare lui, bensì quella “progressive coalition” di cui tutti parlano a Londra, ultima versione del “partito del 48 per cento”: il fronte anti Brexit. Blair ha già detto che ognuno si deve sentire libero di votare il candidato che più gli sembra adatto a fronteggiare il governo sulla Brexit, con referendum finale sul negoziato perché “cambiare idea è legittimo”: il messaggio è chiarissimo, non si vota per appartenenza a un partito ma per creare un consenso anti Brexit di una certa portata – un voto utilissimo, insomma. Ma chi la fa questa alleanza? Ci sono due correnti di pensiero: una fa capo ai laburisti moderati, che devono concretizzare la loro fronda – ci sono molti laburisti che non si vogliono più candidare l’8 giugno, lasciando al Labour di Corbyn anche la responsabilità di selezionare nuovi uomini, e il tempo è pochissimo. L’altra corrente vede nei liberaldemocratici in ripresa il centro di gravità su cui convergere, perché la creazione di un partito nuovo, in poche settimane, è un azzardo indicibile. Una sintesi non è stata trovata, così come non è stato individuato un leader che possa fare da calamita, attirando anche i conservatori anti Brexit (impresa ardua, visti i numeri dei Tory). Ci vorrebbe un Macron inglese insomma, ma chissà dov’è.