Perché la vittoria di Le Pen non è così improbabile come dicono
Un reportage del New York Times racconta da dove nasce la rabbia e la frustrazione che ingrossano l'elettorato del Front National
Roger Cohen, giornalista britannico del New York Times, a dieci giorni dal primo turno delle elezioni si è fatto un giro nella Francia “profonda” di cui tutti parlano, cercando di spiegare almeno parzialmente il rigurgito lepenista che rischia di trasformarsi in ruggito presidenziale. Il risultato è un lungo reportage intitolato – evocativamente –“La Francia alla fine dei giorni”, sottotitolo: “La strada verso la vittoria di Marine Le Pen è piuttosto chiara. Potrà un pragmatico fermare l’estrema destra?”.
Cohen, come altre importanti firme del giornalismo anglosassone, dopo la vittoria di Trump e del fronte pro Brexit si è vaccinato contro l’ingenuo ottimismo dei sondaggi – che hanno già clamorosamente toppato due volte, negli ultimi 10 mesi – e pertanto non esclude, pur cautamente, la vittoria di Marine Le Pen al secondo turno del 7 maggio.
“La sua strada verso la vittoria si dispiega più o meno così – prevedeva due settimane fa Cohen – Si qualifica al secondo turno con circa il 24 per cento dei voti. Il suo sfidante è Macron, con più o meno lo stesso punteggio. Gli elettori più destrorsi di Fillon si spostano sulla Le Pen. Gli elettori del candidato di estrema sinistra, Mélenchon, si rifiutano di votare per Macron; ne hanno avuto abbastanza del cosiddetto ‘voto utile’ e credono che Macron, al netto di tutta la sua retorica sull’essere progressista, abbraccerà il capitalismo globale ‘neoliberale’. Anche alcuni elettori di Hamon si rifiutano di supportare Macron. Il tasso di astensione sale. Le Pen passa per un soffio il 50 per cento e diventa presidente”.
Il fatto, sostiene Cohen, è che l’Occidente è oggi profondamente lacerato e molti analisti, giornalisti e gli stessi politici non si sono ancora resi conto della natura della nuova frattura politica di quest’epoca. Cita un libro, a proposito, che spiega bene dove corre la neonata faglia ideologica occidentale: “L’alienazione provinciale di cui tutti parlano è ben diffusa. Il più chiacchierato dei libri politici di questi giorni è quello di Christophe Guilluy, ‘La Francia della periferia’, un devastante ritratto di quello che lui chiama ‘la frattura culturale totale’ tra i milieu dei network di Parigi e di poche altre città e la distopia in declino tutto attorno. Se l’America ha New York e la campagna di Trump, la Francia ha Parigi e Koenigsmacker. L’abisso tra stati blu e stati rossi, nelle sue varie forme, è la principale condizione culturale dell’Occidente”.
In Europa, secondo Cohen, gli “stati blu” sono le capitali, i centri finanziari, le sedi delle grandi aziende, tutto ciò che è oggi indicato per sineddoche da “Bruxelles”. Se un tempo la capitale belga, che si apprestava a diventare capitale europea, era simbolo di “pace e stabilità” tra popoli che si erano fatti la guerra per secoli, ora è il caproespiatorio di tutti quegli elettori che non hanno votato per Macron, ma che hanno preferito Le Pen, Mélenchon e Hamon.
Non è secondaria, in questo senso, la questione migratoria, visto che con quest’Europa degli “stati blu” i “rifugiati e i richiedenti asilo scorrono attraverso i confini porosi dell’unione. Per dare lavoro agli immigrati serve un mercato del lavoro aperto e flessibile, ma il welfare state francese – finanziato da contributi obbligatori alle pensioni, alla sanità e ai sussidi di disoccupazione che spingono i costi salariali – tendono alla rigidità. Licenziare qualcuno può essere tedioso quanto costoso, per cui si ha una diffusa riluttanza ad assumere. La Francia ha di fatto compiuto una scelta strutturale di disoccupazione. Lo sanno tutti. Ma visto il feroce attaccamento a questo modello, le discussioni oneste al riguardo tendono ad essere un tabù”.
“L’integrazione [degli immigrati, ndr] attraverso l’istruzione – continua Cohen – che era la promessa della Repubblica francese, ha fallito”. Tant’è che oggi le periferie abbandonate, dove pure le scuole ci sono e funzionano relativamente bene, sono la palestra del jihadismo francofono. L’esclusione politico-culturale dei migranti, anche di seconda o terza generazione, porta alla loro radicalizzazione, più che altro come “vendetta nei confronti di una vita indecente: [...] prima le droghe, poi la scoperta della religione (magari in carcere), poi la radicalizzazione nelle moschee clandestine”.
La risposta delle autorità francesi, si legge tra le righe dell’articolo di Cohen, non è particolarmente illuminata. Quasi sempre, a destra come a sinistra, la risposta all’intolleranza o il rifiuto all’integrazione si esplicita in un aggressivo sbandieramento della “laicité”, che “spesso si traduce in leggi che vietano il velo islamico. In effetti può sembrare breve il passo tra definire lo stato attraverso la sua laicità e insistere a che tutti si secolarizzino”.
Parlando dei due candidati che si fronteggeranno al ballottaggio del 7 maggio – anche se quando l’articolo è stato scritto questo ancora non si sapeva con certezza – la posizione di Cohen combacia con quella naturalmente evincibile dalla testata che ospita il suo pezzo. Così Emmanuel Macron, nonostante la provenienza dall’establishment, “ha provato che può rimuovere certe muffe” attraverso un “coraggioso attaccamento all’Unione Europea e all’impegno ad aiutare i rifugiati”, mentre “Marine Le Pen deve distrarre l’attenzione dal suo programma economico, un miscuglio di misure nazionaliste e stataliste combinate con l’uscita dall’euro, che già di per sé manderebbe in rovina i conti bancari francesi”
La conclusione di Cohen, in cui cerca di spiegare il perché di tanto pessimismo francese a fronte di una realtà non luminosa ma nemmeno tragica, è che “essi [i francesi, ndr] vivono meglio di quanto non ammettanno benché in uno stato di crescente angoscia nutrita dai fallimenti [del loro modello socio-economico, ndr] che non sono pronti ad affrontare”. Questo, chiosa, è “lo scenario per una possibile vittoria di Marine Le Pen”.