Principi reaganiani e un volto democratico per la riforma fiscale di Trump
Gary Cohn è il consigliere di sinistra dietro alla manovra applaudita dai liberisti. I dubbi sulle coperture
New York. E’ curioso che l’audace piano fiscale di Donald Trump, un insieme di tagli che secondo l’economista reaganiano Martin Feldstein “stimolerà gli investimenti delle imprese, sosterrà la produttività e farà crescere i salari”, sia stato concepito e benedetto da un consigliere registrato nelle liste del Partito democratico. Gary Cohn, direttore del National Economic Council, è la mente e il volto di una proposta che riduce le tasse individuali per tutti, ricchi compresi, porta la corporate rate dal 35 al 15 per cento, elimina l’alternative minimum tax, che pesa soprattutto sui più abbienti, diminuisce l’aliquota sulle rendite finanziarie e non cita nemmeno la famosa “border adjustement tax”, un surrettizio dazio doganale mascherato da imposta sulla produzione. L’ultimo residuo del protezionismo è scomparso dal piano della Casa Bianca, proprio mentre Trump diceva a Justin Trudeau ed Enrique Peña Nieto che non c’è alcun bisogno per gli Stati Uniti di uscire dal Nafta. Basterà rinegoziare alcuni punti e trovare una linea di compromesso. La Cina era già stata risparmiata dalla definizione, a lungo promessa, di “manipolatori di valuta” per via del ruolo di Pechino nel pericoloso gioco di tensioni con la Corea del nord. Il verbo “America First” è stato sovrastato dalle ragioni della crescita e del mercato, ed è stato il consigliere democratico che ha architettato lo “storico taglio fiscale” accompagnato da una altrettanto storica semplificazione del sistema. Esecuzione, ricezione al Congresso e coperture sono ancora tutte da valutare, ma sui principi che ispirano lo stringatissimo documento trumpiano ci sono pochi dubbi.
In un editoriale, i conservatori del Wall Street Journal in sollucchero acclamano i principi ispiratori del “primo serio dibattito su una riforma negli ultimi trent’anni”, pur riconoscendo che la strada per trasformare una pagina schematica in una legge sarà lunga e piena di ostacoli: “Il piano del presidente Trump ricorda i principi dell’economia supply-side su cui ha fatto campagna ed è un ambizioso e necessario correttivo che aiuterà a restaurare la prosperità americana”. Mercoledì, accanto al segretario del Tesoro, Steve Mnuchin, Cohn ha parlato di una “opportunità che si presenta una volta in una generazione di fare qualcosa di veramente grande”, ed è per fare cose “veramente grandi” che Trump lo ha portato con sé alla Casa Bianca. L’ex presidente di Goldman Sachs con trascorsi leggendari da trader senza scrupoli, roba a metà fra “Il falò delle vanità” e “Wolf of Wall Street”, sta salendo la scala dell’influenza presidenziale tre gradini alla volta. Nel mondo di Trump gli influencer vanno e vengono, i venti cambiano rapidamente, ma il direttore del Consiglio economico ha stretto alleanze con i tipi a lui affini, diventando un pilastro della cosiddetta “ala di New York”, la squadra capitanata da Jared Kushner e che annovera fra le sue fila Mnuchin, anche lui di scuola Wall Street, e Dina Powell, immancabilmente cresciuta a Goldman Sachs.Nell’ala populista, guidata da Steve Bannon in coabitazione con Stephen Miller, sono noti come i “globalisti”, oppure più semplicemente i “democratici”. Si dice che la competizione fra Cohn e Bannon sia così intensa che i due fanno a gara a chi rincasa più tardi dall’ufficio, per sfruttare ogni momento possibile per esercitare la propria influenza sul presidente. E’ in seno ai “democratici” che è nata una bozza di riforma fiscale senza residui protezionisti e con ampie agevolazioni per i ricchi, un piano non proprio a misura di “forgotten man” che suscita non pochi problemi di fattibilità. La Casa Bianca insiste che i tagli saranno coperti dalla crescita economica che verrà generata, affermazione sula quale sono scettici anche i centri studi sulle questioni fiscali di ispirazione conservatrice. La Tax Foundation dice che “non esistono tagli fiscali che si ripagano da soli”, mentre il Tax Policy Center rubrica l’affermazione a “wishful thinking”. Un ex consigliere di Obama ha snobbato un piano di politica fiscale così involuto “che può essere scritto su un tovagliolo”, dimenticando forse che Arthur Laffer ha cambiato la storia disegnando la sua curva su un tovagliolo per spiegarla ai consiglieri di Gerald Ford. Ora quel tovagliolo è in una teca al museo di storia americana.
Il dubbio, a destra, è che si tratti dell’ennesima manovra di Trump per distrarre e confondere, accreditandosi come liberista reaganiano. Bruce Bartlett, già consigliere di Reagan e Bush, ha detto che l’Amministrazione “sta facendo un gioco di specchi per instillare l’ideologia repubblicana nel processo di definizione del budget”, una mossa per poi correggere il tiro quando il vago outline presentato finora dovrà passare al vaglio del Congresso. Lì incontrerà, oltre all’opposizione strenua dei democratici, anche lo scetticismo dei falchi del debito, i repubblicani decisi a evitare che la diminuzione delle entrate fiscali vada interamente a pesare sul deficit. Anche lo speaker della Camera, Paul Ryan, ha chiesto garanzie in questo senso. Secondo Feldsetein, la preoccupazione dei falchi è esagerata, ché comunque l’ufficio budget del Congresso prevede un aumento del debito di oltre il 100 per cento del pil nei prossimi quindici anni, anche senza tagli fiscali. Diceva Reagan: “Il debito è abbastanza grande per badare a se stesso”.
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