Perché la crisi nordcoreana è tutta nelle mani di Xi Jinping
Trump tenta di avvicinarsi a Pechino e si lancia in un accorato elogio del presidente cinese
Roma. Il presidente americano Donald Trump ha detto venerdì, durante una lunga intervista a Reuters, che “c’è la possibilità di un grosso conflitto con la Corea del nord. Assolutamente. Noi amiamo risolvere le cose diplomaticamente, ma è davvero difficile”. Nelle stesse ore, il segretario di stato americano Rex Tillerson, prima di incontrare i ministri degli Esteri di Giappone e Corea del sud a margine del vertice del Consiglio di sicurezza dell’Onu, diceva che l’America sta cercando di riaprire i colloqui con la Corea del nord sul nucleare. L’escalation di tensione tra Washington e Pyongyang da qualche giorno ha uno strano incedere: a ogni dichiarazione belligerante del presidente Trump, a ogni show di forza (compresa la “big Armada”) corrisponde una strategia operativa meno muscolare. E anche da Pyongyang arrivano segnali contrastanti: venerdì è stato diffuso sui canali nordcoreani un minaccioso video di propaganda (che mostra un esteso bombardamento missilistico contro le truppe americane e poi, sul finale, il lancio di un missile atomico contro Washington). Eppure proprio venerdì il regime ha fatto sapere di aver accettato, per la prima volta nella storia, la visita di un funzionario dell’Alto commissariato per i Diritti umani dell’Onu, segnale che dal lato della diplomazia qualcosa sta cedendo perfino a Pyongyang. E mentre la Corea del sud si prepara finalmente a votare per il nuovo presidente, la prossima settimana, la chiave di volta di questo infinito standoff resta la Cina.
Il messaggio di Rex Tillerson alla fine della riunione sulla Corea del nord del Consiglio di Sicurezza dell’Onu era soprattutto rivolto a Pechino: il segretario di stato ha detto chiaramente che all’Amministrazione non interessa la riunificazione, e nemmeno un regime change, ma che tutto quello che serve per risolvere la minaccia nordcoreana è denuclearizzarla. Per Tillerson ci sono ancora molte opzioni per mettere il regime di Pyongyang in un angolo, prima di tutto un isolamento completo, sia finanziario sia diplomatico (messaggio anche per Roma, che ospita una sede diplomatica nordcoreana). A New York, in rappresentanza cinese, era presente il ministro degli Esteri di Pechino Wang Yi, con cui Tillerson ha avuto un colloquio bilaterale.
Del resto, la Casa Bianca è in un momento di luna di miele con la presidenza cinese, che fino a pochi mesi fa era la “più pericolosa minaccia” per l’America in Asia. (Ricordate la militarizzazione del mar Cinese meridionale? Tout est pardonné) . In Corea del sud sono iniziati i lavori per la messa in funzione del sistema antimissilistico americano Thaad, e l’altro giovedì a Seongju, nel sud-est della penisola coreana dove verrà messo in funzione, ci sono state violente proteste. Da mesi la Cina ha iniziato un boicottaggio economico dei prodotti sudcoreani proprio per via dello scudo antimissile americano: per Pechino i radar del Thaad serviranno a Washington per controllare i movimenti cinesi, più che i missili nordcoreani. Ma in una mossa che rischia di minare l’alleanza tra America e Corea del sud, ieri Trump ha detto a Reuters che la Corea del sud “dovrebbe pagare” un miliardo di dollari per la protezione che Washington le sta dando, e che è disposto a mettere in discussione il trattato di libero scambio che ha con Seul. Subito dopo, il presidente americano si è lanciato in un accorato elogio del presidente cinese Xi Jinping, incontrato il mese scorso a Mar-a-Lago: “Credo che ci stia provando con tutte le sue forze. Certamente non vuole vedere morte e distruzione. E’ un brav’uomo e credo di conoscerlo molto bene”. In questo tentativo di avvicinarsi a Pechino in chiave anti-nordcoreana, Trump ha perfino fatto un passo indietro sul riconoscimento di Taiwan: “Il mio problema è che voglio avere un ottimo rapporto personale con Xi. Sta facendo tutto il possibile per aiutarci in questa situazione, e non voglio metterlo in difficoltà adesso”, quindi, prima di avere qualunque incontro con la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen (tutti ricordano la loro telefonata poco dopo il voto americano) “certamente ne parlerò prima con Xi Jinping”.