Che c'azzecca il liberalismo con i francesi?
Un libro di David Spector spiega perché i francesi sono tanto diffidenti verso il mercato ma hanno iniziato tardi a tutelare le classi più povere
Roma. “Nell’estate del 2007, due dirigenti europei, uno di sinistra l’altro di destra, si sono opposti sullo statuto della ‘concorrenza libera e non falsata’”. Ma “era un presidente di destra, Nicolas Sarkozy, che reclamava la soppressione di ogni riferimento alla concorrenza, e un primo ministro di sinistra, il britannico Gordon Brown, che vi si opponeva”.
Così inizia “La gauche, la droite et le marché. Histoire d’une idée controversée (XIXe-XXIe siècle)”, un libro scritto da David Spector, ricercatore associato all’Ecole de Paris per una serie di temi che vanno dall’organizzazione industriale all’economia sperimentale e che Odile Jacob ha pubblicato il 22 marzo. Cioè, in spettacolare concordanza con la campagna elettorale che potrebbe portare per la prima volta nella storia un liberista di sinistra alla presidenza della Francia.
“Cos’è la destra, cos’è la sinistra?”, chiedeva Giorgio Gaber. Rintracciando la storia del dibattito politico ed economico tra Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Germania dalla fine del XVIII secolo a oggi, Spector ci ricorda una cosa che in realtà dovrebbe essere piuttosto nota, ma che nella pratica è come se fosse stata dimenticata. Il libero scambio, ricorda, nacque come un battaglia di sinistra da parte di chi voleva trovare nel mercato il modo per dare ai poveri più occasioni di lavoro, e per mettere loro a disposizione generi di prima necessità a buon mercato. Chi vi si opponeva era una destra retriva composta soprattutto da latifondisti e comunque titolari di interessi acquisiti e privilegi, che volevano appunto difenderli. Esemplare fu la campagna che nel 1846 nel Regno Unito portò all’abolizione di quelle Corn Laws che per difendere il prezzo del grano con una tariffa doganale rendevano caro il pane, base della dieta dei più poveri.
Mutatis mutandis, è quello che oggi avviene ad esempio nelle battaglia di retroguardia contro Uber o contro i voucher. Secondo Spector, il “dibattito semantico” tra l’allora presidente gollista Sarkozy (che ieri ha dato il suo sostegno formale a Emmanuel Macron, e intanto prova a organizzare l’ennesimo rientro in vista delle legislative di giugno) e l’allora premier inglese laburista Brown non metteva in discussione alcun interesse reale. Era utile però per un presidente di destra neoeletto rendere omaggio “all’avversione reale o supposta della maggioranza dei francesi nei confronti della concorrenza”. E qui il libro cita uno studio fatto nel 2011 in sei paesi europei, negli Stati Uniti, in Cina e in Brasile, da cui risulta che i francesi erano i meno propensi all’idea secondo la quale l’economia di mercato è un sistema che funziona piuttosto bene”: “Più di due volte meno che gli italiani (15 per cento contro 26 per cento), malgrado più toccati dalla crisi finanziaria, tre volte meno dei britannici e i tedeschi, e quattro volte meno degli americani”. “L’eccezione francese”, è il mantra spesso ripetuto: uno slogan che vorrebbe fare della diffidenza verso il mercato una garanzia di socialità e attenzione verso gli ultimi.
E’ un caso allora che Thomas Piketty sia nato proprio in Francia? In realtà, fa notare Spector, lo statalismo e il protezionismo in Francia sono stati tutt’altro che strumento di tutela delle classi più povere. Le ferie pagate furono infatti introdotte solo negli anni Trenta, l’imposta sul reddito è venuta anche più tardi, gli alti redditi sono stati tra i meno fiscalizzati e il welfare ha iniziato a essere all’altezza delle medie europee alla fine degli anni Settanta. Insomma, statalismo e protezionismo sono stati tirati in ballo per difendere un mitizzato tessuto di piccole proprietà agricole e piccole imprese che sarebbe stato l’eredità della grande redistribuzione operata dalla Rivoluzione francese. In realtà però sarebbe servito unicamente a proteggere gli interessi parassitari di ristrette oligarchie economiche.