Il guaio della sinistra lepenista
Perché la gauche fa così fatica a considerare un nemico il candidato xenofobo e nazionalista? La melina di Mélenchon su Macron (certificata ieri) tradisce i sintomi di una patologia ideologica, potenzialmente letale
La Le Pen si è negli anni banalizzata o dédiabolisé, come si dice qui, ma non esageriamo, oltre la riverniciatura e una notevole emotività oratoria resta un profilo politico e culturale schiettamente reazionario. Quando il suo comizio è finito, ti dici: bè, sa come dare voce alla pancia del paese, sa come evocare le insicurezze e le paure, conosce l’argomento populista e sa attualizzarlo alla scena politica e umorale francese e mondiale, non ha scrupoli argomentativi, ma insomma, è proprio una fascista, ha un’idea chiusa, retrograda, passatista della Francia. A sinistra però si fa difficoltà, parecchia, a opporsi, votando il suo rivale, alla figlia del fondatore del Front national, che quindici anni fa subì addirittura una bastonatura elettorale e popolare, il famoso matraquage, e fu ridotto sotto il 20 per cento da una coalizione unanimista, di cui la gauche fu avanguardia, intorno al candidato gaullista Jacques Chirac. Due terzi dei mélenchonisti consultati in rete, alla Casaleggio, si sono dichiarati per il voto in bianco o l’astensione: piuttosto di votare un liberale, che la leader dell’estrema destra faccia il suo corso. Il fatto è che stavolta al candidato nazionalista, xenofobo, e al suo partito ex vichysta, non si oppone un gaullista impegnato a sanare a chiacchiere la fracture sociale, come diceva Chirac, ma un social-liberale, il riformista Macron. Non un francese de souche come l’ex presidente, terragno e di radici nazional-popolari, ma uno scandaloso alto funzionario e banchiere Rothschild, un internazionalista, europeista, uno che crede nella virtù sociale del mercato, non ha la fobia ideologica dell’Argent-roi, e ha idee di cambiamento informate al nuovo mondo dell’apertura delle frontiere, allo choc di competitività, alla dialettica di responsabilità individuale e di libertà (e diritti).
E’ vero che le difficoltà, segnalate da un Primo Maggio affetto da divisione e tristezza, dalle manifestazioni studentesche contro l’alternativa “tra la peste e il colera”, dalle furberie di Jean-Luc Mélenchon, tribuno della sinistra bolivariana chic, che non vota Le Pen ma non dice di votare Macron, sono legate anche ad un altro fattore: lo scorno, condiviso con i gaullisti di François Fillon, per essere stati esclusi dal turno decisivo. La responsabilità è rigettata sul “sistema”, una specie di scippo o furto con destrezza che ha lasciato a piedi gaullisti nazional-liberisti umiliati dal socialismo destrorso dei lepenisti e socialisti rivoluzionari del tipo sognatore battuti dal tecnocrate mondialista (i comunisti di Pierre Laurent, che erano e sono nella coalizione mélenchonista, contano poco ma come sempre sono disciplinati e realisti, non vogliono la vittoria di Marine e sanno che per evitarla c’è un solo voto a disposizione, quello per il suo avversario). Poi nelle urne chissà che accadrà.
Prima delle urne, le idee. La struttura della realtà e della storia ne è piena, le idee traboccano, si fanno falsa coscienza, ideologia, mito politico, guida per l’azione. L’uomo dei denari, del profitto di impresa e finanziario, il modernizzatore e sradicatore di vecchie certezze assolute, si chiami oggi Macron, si sia chiamato Renzi o Craxi in Italia, fosse uno Schröder in Germania, un Blair in Gran Bretagna, e più in là nel tempo un social-fascista, come dicevano gli stalinisti dei socialdemocratici prima della svolta del VII Congresso del Comintern, dichiarandoli nemico principale, è il male assoluto, il nemico simbolico, anche se sia rivale di una personalità autoritaria, e nel caso di una dinastia familista della destra di origine maurrasiana e legittimista, nazionalista e fascista, specie se banalizzata sotto le insegne retoriche di un socialismo nazional-protezionista e populista.
A pochi giorni dal voto fermenta tra le masse elettorali alla deriva o in libera uscita l’arabesco dell’idéologie française, ricostruita con estro nel 1980 dal giovane Bernard-Henri Lévy e oggetto di mille ricerche storiche, filosofiche, politiche e antropologiche. Terra, sangue, nazione e avventura sono componenti trasversali del pensiero e della sensibilità francesi, ma il discorso vale per l’Europa in generale. Quando è in gioco la normalità borghese, con il suo lessico riformista, con il suo schiacciamento sul presente e sull’efficacia, quando si avvista un liberale, ecco che l’orizzonte dell’uomo e della donna di sinistra si fa scuro, fino al punto per alcuni (quanti?) di scambiare uno della covata politica hollandista, uno che fa un esperimento audace e inedito di liberalismo europeista dall’alto e dal basso, uno come Macron, per un nemico vero e irriducibile, uno che, nel gioco della torre di un ballottaggio esistenziale, forse puoi sacrificare al posto dell’odiata Marine e dei suoi compari. Poi, fosse eletta la Le Pen, Dio solo sa che cosa accadrebbe nelle strade di Parigi e delle grandi città di Francia. Gli stessi che si sono rifiutati di farle sbarramento nell’unico modo possibile porterebbero i loro patologici sintomi ideologici allo scontro frontale. E forse è quel che sperano in cuor loro tribuni e pastori di una parte notevole della vecchia gauche.
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