Perché in Libia si va verso una replica del sistema di potere militare egiziano
Dall'incontro tra Haftar e al Serraj potrebbe sorgere uno stato dove il governo civile è subordinato ai militari. Gli sponsor del trio Emirati-Egitto-Russia, la debolezza americana e la posizione dell'Italia
In politica internazionale i luoghi nei quali vengono stabilite intese e firmati accordi solitamente dicono molto circa i contenuti degli stessi: Abu Dhabi o Astana non sono Ginevra. L’intesa uscita due giorni fa dall'incontro tra il generale Khalifa Haftar e il presidente del Consiglio presidenziale libico Fayez al Serraj proprio ad Abu Dhabi nasce sotto gli auspici del trio Emirati-Egitto-Russia e prevede la formazione di un nuovo consiglio di presidenza dello stato formato da tre membri anziché da nove come stabilito negli accordi sottoscritti nel dicembre 2015 a Skhirat (Marocco), città decisamente più occidentale non solo geograficamente. I tre membri saranno il presidente del parlamento di Tobruk (Aghila Saleh), il presidente del governo d’intesa nazionale (Serraj) e il “comandante dell’esercito” (Haftar), con quest’ultimo che ne terrebbe la presidenza. Al Serraj sarebbe sostanzialmente in minoranza e ciò decreterebbe la preponderanza dell’attuale coalizione cirenaica guidata da Haftar. La questione più preoccupante, dalle indiscrezioni trapelate sinora, è che sembrerebbe caduto quel concetto basilare in democrazia che sottopone il capo delle forze armate al controllo del governo civile. Questa era una condizione imposta dagli accordi di Skhirat (art. 8) voluti dalle Nazioni Unite, il Libyan Politcal Agreement (LPA). Per questo passaggio, come per una candidatura di Haftar alle prossime elezioni, sarebbero necessari emendamenti proprio al LPA. Il processo potrebbe richiedere tempo e non essere accettato da un numero vario di forze politiche e militari, specialmente in Tripolitania.
Quali fattori hanno permesso di arrivare a questa intesa? Le pressioni di Russia, Egitto ed Emirati su Haftar lo hanno costretto a venire a patti. Ma certamente ciò è avvenuto da una posizione di forza. La Russia aveva fatto la sua irruzione sulla scena con un deciso appoggio ad Haftar tra la fine del 2016 e l’inizio di quest’anno. Il 12 gennaio Haftar era stato ricevuto a bordo della portaerei russa Kuznetsov, aveva assistito ad alcuni decolli dal ponte della nave per poi collegarsi in video conferenza con il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, a Mosca. Per certi versi Haftar era apparso negli ultimi mesi una “creatura” sfuggita di mano all’Egitto. Il generale libico aveva rifiutato di trattare con la controparte di Tripoli, nonostante i numerosi tentativi diplomatici, non ultimo quello egiziano del 13 febbraio scorso. Allora Haftar aveva sbattuto la porta in faccia ad al Serraj sicuro di poter ottenere di più. Il generale rifiutava sostanzialmente di sottoporre il (proprio) potere militare al potere civile. Visto il risultato attuale, sembra abbia fatto bene.
A cedere pare sia stato al Serraj. Quest’ultimo si è indebolito ulteriormente nell’ultimo periodo, non solo per la divisione all’interno della coalizione di alcune delle milizie che ne hanno consentito l’ascesa (che in ogni caso sembra reggere) ma soprattutto per un sempre meno convinto ruolo degli Stati Uniti a suo supporto. L’amministrazione Trump non vede la Libia come una priorità della propria politica estera e non è intenzionata a battaglie politiche. Il messaggio era apparso chiaro al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni nella recente visita a Washington: l’impegno americano si sarebbe limitato al contenimento della minaccia jihadista, quindi sostanzialmente al contrasto militare dei residui del Califfato in Libia. L’Italia era riuscita a creare un asse con l’amministrazione Obama: i due governi nell’ultimo anno hanno proceduto a consultazioni preventive su tutte le decisioni da prendere e sono riusciti molto spesso a dettare la linea agli alleati europei. Il nostro governo ha fatto di tutto per stabilizzare la Libia in senso a sé favorevole: dagli accordi con al Serraj alle azioni di mediazione tra le tribù del sud del paese. Ma l’Italia con Trump è apparsa sola. Il tentativo di attivare un’azione politica dell’Europa si è tradotto in un timido sostegno sulla questione dei migranti.
Il risultato pare un accordo russo-centrico con il rischio di una deriva verso il "modello al Sisi", ossia con la formale subordinazione del governo civile ai militari, come avviene in Egitto. Un modello destinato con ogni probabilità a rivitalizzare un nuovo fronte islamista in Libia. Incluso nell’accordo vi sarebbero infatti due elementi alquanto problematici: la definizione di alcune formazioni di miliziani come gruppi terroristici e lo scioglimento e l’integrazione delle milizie all’interno di un esercito sotto il controllo di Haftar. Se così sarà è facile prevedere che, particolarmente in Tripolitania, diverse formazioni non accetteranno questa soluzione. Alcune potrebbero sentirsi tradite dal cedimento di al Serraj. Haftar sembra invece spianarsi la strada verso la presidenza. Senza nessuna dichiarazione ufficiale alla conclusione del vertice di Abu Dhabi, i dettagli dell’intesa sono ancora poco chiari. Dietro di essi si cela il futuro del paese.
Arturo Varvelli è Senior Research Fellow e Head of Terrorism Research Program all'ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale)