Non solo Trump. La guerra dell'Heritage è sul senso dei conservatori nel mondo
Il turbolento cambio al vertice del think tank di Reagan
New York. Alla Heritage Foundation non amano gli eufemismi e le perifrasi burocratiche per mascherare le decisioni difficili. Il board ha deciso di licenziare il presidente, Jim DeMint, quando si sono manifestate “importanti problemi di gestione che hanno condotto a una interruzione delle comunicazioni interne e della cooperazione. DeMint e i suoi più stretti collaboratori non sono stati in grado di risolvere questi problemi”, si legge nel comunicato del think tank conservatore. Niente decisioni personali, problemi famigliari o generica ricerca di nuovi stimoli, il motivo formale preferito nel mondo del calcio. DeMint è stato cacciato perché c’è una guerra in corso nel mondo conservatore, e solitamente le guerre qualcuno le vince e qualcun altro le perde. L’ex senatore della South Carolina è stato messo in minoranza ed esiliato, e la sua istituzione non gli ha nemmeno offerto la foglia di fico di una spiegazione accettabile da presentare in società. Qual è l’oggetto del contendere? La risposta è inesorabile: Donald Trump.
Il fatto imperdonabile, agli occhi di alcuni influenti membri del consiglio di amministrazione, è che DeMint ha tentato di trasformare una venerata istituzione repubblicana in una piattaforma del trumpismo, cedendo (o rimanendo silente) su posizioni classiche del movimento conservatore in cambio di maggiore influenza presso la magmatica Casa Bianca. Durante le primarie repubblicane il presidente ha resistito alle richieste di sostenere Ted Cruz e si è tranquillamente allineato con il popopulismo nazionalista di Trump, fiutando il cambio di vento politico. Ma un pensatoio che produce idee e contenuti a beneficio dei legislatori non dovrebbe essere (troppo) esposto ai venti passeggeri della politica.
Come ha scritto il board nella nota insolitamente esplicita, la Heritage Foundation “è più grande di un solo uomo”, mentre DeMint ambiva, nemmeno troppo segretamente, a personalizzare il think tank, cosa che in questo momento storico comportava un patto a parti diseguali con Trump. La tendenza demintiana era già visibile prima che Trump si affacciasse sulla scena politica. DeMint ha deciso nel 2013 di abbandonare il Senato nella convinzione di avere più potere alla guida del glorioso centro studi del reaganismo che in un’aula litigiosa e inconcludente. Diversi esperti in forza al think tank hanno annusato subito l’aria troppo politicizzata e hanno abbandonato le scrivanie. L’anno successivo il New York Time ha registrato il dato che conta: “Sotto la guida di DeMint, Heritage è passata dalla policy alla politics”. Gli scontri personali in questi divorzi dolorosi c’entrano sempre, ma al fondo della disputa c’è la questione del senso del pensiero conservatore in America. La vocazione dei pensatoi è costruire idee e architetture di policy che servono alla politica, oppure mettersi in posizione ancillare rispetto al potere di turno? In fondo, la Heritage è diventata la stella polare del mondo conservatore producendo per Reagan un noiosissimo e necessario volume di tremila pagine per riprogrammare in senso conservatore le strutture amministrative dello stato. Il “Mandate for Leadership” faceva ciò che la Casa Bianca non avrebbe mai potuto fare: un lavoro certosino, maniacale e in larga parte oscuro per portare avanti la riflessione conservatrice. DeMint ha cambiato questo corso, deprimendo la dimensione accademica dell’Heritage in favore di quella più strettamente politica, e si è trovato contro un avversario agguerrito di nome Mike Needham, protetto del predecessore di DeMint, Ed Feulner. Needham guida la Heritage Action for America, il braccio politico della fondazione, e a rigor di logica dovrebbe essere favorevole al processo di “politicizzazione” del centro, mentre invece ha fatto di tutto – anche convincere i trumpiani del board che nominare Steve Bannon alla presidenza è una buona idea – per spiegare al consiglio che DeMint non si è soltanto messo in posizione servile rispetto a un presidente ideologicamente confuso, ma sta mettendo in discussione il senso stesso dell’organizzazione, che è produrre idee conservatrici che funzionano.