La grande bufala (battibile) del populismo europeo
Oggi Macron, ieri Rajoy, domani Merkel. Il coraggio della verità è l’unica legittima difesa contro la bolla populista
Make Europe Great Again. I molti commenti che hanno descritto le conseguenze politiche e culturali della straordinaria vittoria francese di Emmanuel Macron si sono concentrati quasi tutti su un punto specifico che riguarda il rapporto tra il nuovo presidente francese e la bandiera con le dodici stelle europee che ha accompagnato la sua campagna elettorale. L’impressione generale, giustificata, è che la vittoria di Macron sia prima di tutto una grande vittoria per l’Europa, perché rilancia il progetto dell’Unione, lo rende più forte e gli offre una concreta prospettiva futura. Tutto vero. Ma il ragionamento rischia di essere incompleto se si sottovalutano due ulteriori aspetti che riguardano il significato che ha avuto (e che avrà) l’affermazione di Emmanuel Macron. Che non è solo una vittoria per l’Europa ma anche una vittoria con l’Europa e dell’Europa. Non si tratta di un semplice gioco di parole, ma si tratta di due caratteristiche senza le quali è difficile spiegare quello che è successo domenica scorsa in Francia e, soprattutto, quello che è successo negli ultimi dodici mesi nel nostro continente. Quella di Macron è stata una vittoria con l’Europa perché, come sappiamo, nella storia dell’Unione europea non era mai successo che un politico si candidasse a guidare un paese portando in piazza le bandiere dell’Europa e provando a dimostrare senza sfumature un concetto importante che suona più o meno così: tutti gli elettori, ormai, tendono a votare per i politici che offrono il più convincente messaggio di “protezione” (parola ripetuta non a caso tre volte nel primo discorso presidenziale di Macron, domenica sera); ma la particolarità del cammino di Macron è essere riuscito a convincere gli elettori che la migliore forma di protezione possibile oggi la si può ottenere governando la globalizzazione (e non rifiutandola), unendo le forze dei paesi europei (e non chiudendo le frontiere) e scommettendo sul fatto che esiste un pezzo di elettorato potenzialmente maggioritario in tutti i paesi del nostro continente (la Gran Bretagna, che è fuori dal nostro continente, è un caso a parte) che considera l’Europa un valore non negoziabile, e che vede nella paura dei populisti la più grande paura dalla quale difendersi oggi. Semplicemente perché, pur con tutti i suoi difetti, l’Europa è la peggior forma di governo possibile eccezion fatta, direbbe Churchill, per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora. E pur con tutti i suoi errori da correggere (in primis la capacità di governare i flussi migratori) resta un continente in salute. Ha un’economia che cresce più di quella americana (1,7 per cento, contro 1,6). Ha una disoccupazione in calo da molti trimestri e che finalmente è tornata sotto la quota simbolica del dieci per cento. Ha un welfare che funziona e che negli ultimi anni ha cominciato a essere più efficiente (la spesa legata al welfare è scesa dal 50 per cento del pil toccato nel 2009 al 46 per cento di oggi). Ha un deficit medio (relativo ai 20 paesi dell’Ue) pari all’1,6 per cento contro il 3,3 per cento americano. Le immatricolazioni delle auto continuano a registrare numeri a due cifre (+14 per cento a febbraio, vendita di auto cresciuta del 41 per cento in Grecia). E soprattutto, e qui arriviamo all’ultimo punto del nostro ragionamento, ha un sistema che negli ultimi dodici mesi ha mostrato di avere gli anticorpi sufficienti e solidi per resistere all’onda populista e non essere fagocitata da un lato dall’internazionale trumpiana e dall’altro da quella putiniana.
Quella di Macron, in questo senso, è una vittoria dell’Europa perché fino a oggi le forze politiche che si sono presentate alle elezioni non solo per rinnovare il sistema ma per sfasciarlo sono state tutte regolarmente ridimensionate e nei casi in cui si sono affermate sono state portate presto alla normalità. Pensate, nell’ultimo caso, alla Grecia di Alexis Tsipras – caso perfetto di candidato anti sistema che scopre l’utopismo delle sue ricette al punto di non voler rinunciare all’euro quando avrebbe potuto e al punto di arrivare a considerare un successo importante per la sinistra europea la vittoria di un banchiere di nome Macron (“una grande fonte di ispirazione per il futuro dell'Europa”). Pensate, nel primo caso, invece, al filotto di risultati (incredibili) registrati in Europa negli ultimi mesi. Il 7 maggio la candidata che avrebbe dovuto distruggere l’Europa (e l’euro e la Nato) viene sconfitta da un banchiere che in un anno arriva da zero voti a 20 milioni ottenendo in termini assoluti più consenso di tutti i presidenti della Quinta Repubblica, eccezion fatta per Chirac. Due mesi prima, a marzo, il conservatore Mark Rutte sconfigge il candidato dell’internazionale trumpiana, Geert Wilders. Pochi mesi prima, a dicembre, i socialdemocratici trionfano in Romania e marginalizzano le forze anti sistema. E seppure per pochi voti anche l’Austria, il 4 dicembre, respinge il candidato della destra xenofoba, Norbert Hofer, eleggendo al ballottaggio il verde Alexander Van der Bellen. Pochi giorni prima, il 30 ottobre, in Islanda, il Partito dei pirati, dato in vantaggio da tutti i sondaggi, viene surclassato dal Partito dell’indipendenza, di tradizione conservatrice, che oggi guida il paese sostenuto da una coalizione di centrodestra. Stesso discorso sia in Portogallo, dove gli elettori hanno respinto i populisti scegliendo come presidente il conservatore Marcelo Rebelo de Sousa, sia in Slovacchia, dove il partito del socialdemocratico Robert Fico ha messo da parte i partiti anti sistema diventando nuovamente capo del suo paese per il secondo mandato consecutivo. E poi, infine, il 26 giugno, in Spagna, Mariano Rajoy (Partito popolare, centrodestra) ha mostrato che anche nel suo paese, nonostante il rigido regime di austerity messo in campo durante il suo mandato, l’onda populista (Podemos) esiste ma non resiste.
I numeri sono numeri e la dinamica delle principali elezioni europee (Germania compresa, dove i populisti verranno marginalizzati nello scontro tra Merkel e Schulz) ci dice che in Europa la minaccia anti sistema (xenofoba e sfascista) esiste ma è stata ampiamente sopravvalutata. Laddove i populisti hanno avuto una chance concreta per vincere le elezioni sono stati sonoramente sconfitti (vedi la Francia). Laddove invece i populisti hanno mostrato le loro attitudini di governo in realtà locali (in Spagna Podemos nel 2015 ha conquistato due grandi città del proprio paese, Barcellona e Madrid, ma sono bastati due anni di governo per far cambiare idea a molti elettori, e due anni dopo quei successi Podemos ha perso 190 mila voti nelle città governate) i populisti sono stati rapidamente riportati alla loro dimensione naturale: una minaccia potenziale, sì, ma del tutto irrilevante.
La cornice descritta ci riporta rapidamente in Italia e non per fare paragoni impropri tra le dinamiche politiche francesi e quelle italiane ma perché nei prossimi mesi gli occhi degli osservatori di tutto il mondo più che concentrarsi sull’Inghilterra (si vota l’8 giugno) o sulla Germania (si vota il 24 settembre) si concentreranno inevitabilmente sul nostro paese. Dove le forze anti sistema hanno una loro dimensione chiara ed esplicita (no euro, no Europa, no immigrati) ma dove il vero problema riguarda l’identità delle forze pro sistema – che al contrario delle forze anti sistema non è ancora del tutto definita. Forse le prossime elezioni amministrative (giugno) ci aiuteranno a capire che anche nel nostro paese l’ondata populista potrebbe essere ampiamente esagerata, per quanto quotidianamente alimentata. Ma prima di capire se esiste, se può esistere, una qualche convergenza anche sul lato floppettaro (nel senso di collezione di flop) tra le forze anti sistema italiane e quelle francesi e spagnole (anche in Italia c’è una forza populista che dopo aver cominciato ad amministrare due importanti città, Roma e Torino, ha cominciato a scoprire che il consenso è facile da mettere insieme quando si è contro il governo mentre è molto difficile tenerlo stretto quando si finisce al governo) è necessario capire cosa ci dicono le elezioni francesi sul futuro dei partiti che si ispirano ai princìpi del centrodestra e del centrosinistra.
Nel primo caso, la Francia ci dice due cose concrete: le elezioni si vincono al centro e l’estremismo porta molta attenzione mediatica ma non porta voti sufficienti per governare. Nel secondo caso, invece, la Francia ci dice una cosa diversa: una sinistra trasversale può vincere le elezioni (oggi Macron in Francia, ieri Renzi alle europee), mentre una sinistra che non si rinnova forse può vincere un congresso (Hamon, Corbyn) ma senza uscire dalla gabbia ideologica del Novecento le elezioni non le vincerà mai. Il macronismo, da questo punto di vista, è un fenomeno che andrà studiato con calma e che naturalmente dovrà essere messo alla prova ma al suo interno contiene già un tratto importante di una nuova cultura europea: essere trasversali non significa essere né di destra né di sinistra ma significa aver compreso che in una fase storica in cui il populismo ti costringe a mettere da parte le cazzate (il manifesto politico di questa campagna elettorale è l’ultimo libro di Daniel Cohn-Bendit, “E se la finissimo di sparare cazzate?”) è necessario prendere il meglio da entrambe le tradizionali culture politiche (centrodestra e centrosinistra) per tentare di rappresentare una platea di elettori che supera gli steccati della propria parte politica. Per fare questo Macron – eccola la parola chiave del suo primo discorso da presidente – ha scelto di usare non solo la chiave dell’Europa ma ha scelto “il coraggio della verità”. Donald Tusk, con un pizzico di sfrontatezza, ha detto che i francesi hanno detto “no alla tirannia delle fake news”. Ma se c’è una grande fake news con cui oggi è necessario fare i conti in Europa (anche nel nostro paese) è che che si possa essere insieme europei e anti europei. Il discorso dell’impossibilità di essere parzialmente europei (è come essere parzialmente incinta) vale tanto per il centrosinistra quanto per il centrodestra. E se la vittoria di Macron potrebbe aiutare Renzi a capire che l’europeismo è un sogno vincente – e trasversale – con il quale si può mettere in minoranza anche con discreta facilità il fronte populista, la sconfitta di Marine Le Pen dovrebbe portare anche Berlusconi a costruire un suo cammino indipendente da quello dei lepenisti all’amatriciana.
La vittoria di Macron, dunque, ci dice molte cose. Ma ci dice prima di tutto che l’Europa – che potenzialmente può diventare dunque la vera alternativa culturale, economica e di sistema al modello del protezionismo trumpiano, ed è anche per questo che abbiamo deciso di avvolgere oggi il Foglio con una fantastica bandiera europea disegnata da Vincino – è in cammino contro i populisti. E ci dice che in fondo, a oggi, le stelle che vincono, nel nostro continente, sono più le dodici dell’Europa che che le cinque del modello grillino. Per questo, anche per questo, il “coraggio della verità” – che poi in Italia significa non accettare l’agenda anti casta ma ribaltarla senza avere paura di sostituire alle chiacchiere inutili dei vitalizi e delle auto blu i temi complicati ma cruciali come crescita, produttività, concorrenza, debito pubblico – può essere la chiave giusta per far implodere i populisti. Perché la Francia di Macron, la Spagna di Rajoy e la Germania di Merkel e Schulz ci dicono una cosa chiara. Ci dicono che i campioni della post verità si possono combattere con l’unica arma contro la quale le forze anti sistema non possono reagire: i fatti, la miglior legittima difesa da usare (non solo di notte) contro i nuovi professionisti delle bufale populiste.