Comey, you're fired. Perché Trump ha cacciato il capo dell'Fbi
Il licenziamento è formalmente giustificato con gli abusi commessi da Comey nell’inchiesta sulle email di Hillary Clinton. Intanto l’indagine del bureau sul Russiagate si sta allargando e intensificando
Donald Trump ha licenziato il direttore dell’Fbi, James Comey, seguendo l’indicazione arrivata ieri dal procuratore generale, Jeff Sessions. In estrema sintesi, la manovra leva di torno il direttore che ha aperto un’inchiesta – tuttora in corso – sui rapporti fra l’entourage di Trump e il Cremlino durante la campagna, ma è formalmente giustificata con gli abusi commessi da Comey nell’inchiesta sulle email di Hillary Clinton. Ma procediamo con ordine.
Un circostanziato memorandum firmato dal numero due del dipartimento di giustizia spiega le motivazioni del suggerimento accolto ieri pomeriggio dal presidente: “Non posso difendere il modo in cui il direttore ha gestito la conclusione del caso delle email del segretario Clinton, e non capisco il suo rifiuto di accettare il quasi universale giudizio sul suo errore”. Segue un elenco dettagliato di tutti gli errori commessi da Comey nel maneggiare l’inchiesta politicamente bollente che secondo Clinton (e non solo) le è costata la presidenza.
Il 5 luglio del 2016 il direttore dell’Fbi ha presentato in una conferenza stampa le conclusioni di un’inchiesta senza imputazioni per la candidata democratica; il 28 ottobre, undici giorni prima delle elezioni, e ha comunicato una parziale riapertura del fascicolo per via di nuove email legate a Hillary di cui il bureau è entrato in possesso indagando su Anthony Weiner, disgraziato marito della consigliera clintoniana Huma Abedin. Queste “nuove” informazioni in realtà non aggiungevano elementi utili all’inchiesta, e quindi a breve giro di posta Comey ha ri-dichiarato il caso chiuso, ma ormai la frittata politica era fatta. Con somma gioia di Trump, naturalmente, che allora si sperticava per il responsabile senso di terzietà mostrato dall’ufficiale. In seguito il presidente ha adottato toni più ruvidi contro Comey, assecondando anche una corrente all’interno della Casa Bianca che da prima dell’insediamento preme per una cacciata. Il dipartimento di giustizia ora critica tutte i vari passaggi della gestione del caso Clinton, e non cita nemmeno la questione russa. Fra tutte le contestazioni, l’accento cade in particolare sull’abuso d’ufficio commesso da Comey quando ha deciso di rendere pubblica l’inchiesta su Hillary, senza informare il procuratore generale, cosa giustificata a posteriori con un presunto – e per la verità chiaro – conflitto politico a carico dell’allora procuratore, Loretta Lynch: “Il direttore dell’Fbi non ha mai il potere di soppiantare i procuratori federali e di assumere il comando del dipartimento di giustizia”. Queste valutazioni sono arrivate sulla scrivania di Sessions, che le ha girate a Trump accompagnate da una richiesta di licenziamento immediato di Comey.
Il presidente, che ha il potere di cacciare il direttore dell’Fbi quando vuole (il mandato naturale è di dieci anni), ha liquidato con tale rapidità che l’interessato, in quel momento a Los Angeles, lo ha saputo dalla televisione.
Nella breve lettera di licenziamento c’è un passaggio chiave: “Benché apprezzi molto il fatto che mi ha informata, per tre volte, che non sono sotto inchiesta, lo stesso…”. Se si segue il ragionamento legale dell’Amministrazione, si tratta di una excusatio non petita: il motivo del licenziamento riguarda il caso Clinton, non l’inchiesta sulla Russia, e non è formalmente chiaro perché il presidente faccia riferimento ad altre inchieste, per di più aggiungendo dettagli inediti e riservati. Nella realtà il motivo è piuttosto chiaro, ma l’Amministrazione si è giocata questa manovra spregiudicata in modo da depotenziare le critiche dei democratici.
Il coro dell’indignazione si è sollevato furente su Trump che fa fuori l’inquisitore dei suoi affari russi con un’indagine ancora pendente, ma la Casa Bianca può ribattere con una sintesi che suona così: “Ma non eravate voi che chiedevate la testa dell’uomo che vi ha soffiato la presidenza? Eccovi accontentati”. Il meccanismo è scattato immediatamente, su Twitter, dove il presidente aspettava gli avversari per azionare una trappola con un meccanismo fin troppo visibile: “Cryin’ Chuck Schumer ha detto di recente ‘non ho più fiducia in lui (James Comey)'. E poi si indigna così”.
La tecnica si riflette anche negli editoriali opposti di New York Times e Wall Street Journal di oggi. Il giornale liberal attacca con forza la decisione, ma deve attardarsi con premesse inevitabili – “Di certo Comey merita tutte le critiche che gli sono state rivolte…” – mentre il quotidiano conservatore può andare dritto al punto titolando: “Il meritato licenziamento di Comey”.
Ad aggravare la situazione è uscita la notizia di una serie di mandati di perquisizione di un gran giurì per diversi consiglieri di Michael Flynn, uomo chiave nei rapporti con la Russia e primo fra i licenziati legati al caso. E’ una testimonianza che l’indagine dell’Fbi si sta allargando e intensificando, e in un contesto del genere è ancora più bizzarro o ben calcolato il tempismo della cacciata di Comey.
C’è una considerazione da tenere presente per mettere ordine nell’intrigo. I due casi al centro della questione – Clinton e Russia – sono completamente slegati fra loro e da un punto di vista dell’utilizzo politico sono in ovvio contrasto. Uno ha favorito Trump, l’altro lo mette in pericolo. L’unico elemento che li tiene insieme è che documentano l’indipendenza (e pure l’irruenza) di Comey, uomo di osservanza repubblicana messo alla testa del bureau da un presidente democratico. Ha commesso errori e imprudenze evidenti, Comey, nel maneggiare inchieste esplosive, ma la versione democratica dello sbirro politicizzato ai comandi di Trump è caduta ieri insieme alla sua testa.