Una famiglia cammina davanti a un muro su cui è disegnata la bandiera dell'Isis a Tabqa, in Siria, appena liberata dal Califfato (foto LaPresse)

Anche Isis piagnucola

Daniele Raineri

Ora i combattenti dell’Isis in fuga chiedono aiuto ai governi: “Non vi odiamo più, veniteci a prendere”

Roma. L’inviato della Bbc Quentin Sommerville è andato nel nord della Siria – in una zona controllata dall’Esercito libero, quindi opposizione anti Assad – e ha visitato tre prigioni (improvvisate, cadenti) in tre giorni. Sono colme di combattenti stranieri dello Stato islamico che si sono fatti catturare dopo avere disertato e mentre scappavano verso il confine con la Turchia, a pochi chilometri. C’è Mohamed Attalah, francese, che ora dice: “Non odio la Francia”. E’ arrivato in Siria con la moglie Sara. Hanno avuto una bambina a Raqqa, capitale dell’Isis. Dice di voler tornare a casa e di sapere che in Francia finirà in prigione, “non so per quanti anni, cinque? dieci?”, ma comunque preferisce questa prospettiva a restare prigioniero con la famiglia nel nord della Siria. La moglie dice: “Avevo tutto in Francia, stavo bene, avevo hobby, andavo a scuola, non avevo nulla a che fare con tutto questo”. Se le cose fossero andate bene è probabile che ora farebbero ancora parte del gruppo e della sua propaganda trionfale, fatta di esecuzioni in piazza e dichiarazioni di guerra globale. Invece, come spesso succede quando crolla un’utopia, fanno parte dello spettacolo umano e orrendo di chi si era illuso e ora è bloccato dalla parte sbagliata della storia. “Vivere in Siria è difficile, ci sono i bombardamenti. Non augurerei a nessuno di vivere così, figurarsi portarci una moglie e una figlia”. Raqqa è uno dei bersagli colpiti con più frequenza dai raid aerei della Coalizione, che sono più precisi di altre aviazioni ma non sempre. Un combattente inglese dell’Isis, Stephan Artisidou, si fa fotografare con in mano un biglietto di carta con la data dell’intervista, come se fosse un rapito, in un rovesciamento di ruoli: “Abbiamo bisogno di essere aiutati – dice al giornalista della Bbc – e sono consapevole del fatto che il governo turco non vuole dare aiuto e nemmeno quello inglese”. 

 

Al di là del confine, la settimana scorsa una corte turca ha condannato l’inglese Aine Davis a tre anni e mezzo per terrorismo. Davis è uno dei quattro Beatles, il gruppo di sequestratori inglesi dello Stato islamico guidato da Jihadi John. Si occupavano degli ostaggi occidentali, come i giornalisti James Foley e Steven Sotloff, che poi furono uccisi davanti a una telecamera, e Kayla Mueller, l’operatrice umanitaria che fu stuprata dal capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi. I rapiti sopravvissuti (perché sono stati riscattati dai governi) raccontano che i Beatles erano sadici, li picchiavano, li umiliavano, organizzavano finte esecuzioni. L’inglese è stato catturato in Turchia nel 2015, c’è il sospetto che stesse per organizzare un attentato in stile Bataclan, si difende dicendo che lui non c’entra con l’Isis e che la foto che gira su internet di lui con un fucile d’assalto in mano la fece per scherzo. “Io non sono dell’Isis, sono andato in Siria perché nel mio paese c’è oppressione”. Di nuovo, le utopie che cadono in pezzi producono cortocircuiti nelle menti di chi meno di tre anni fa aveva potere di vita e di morte – le esecuzioni cominciarono nell’estate 2014 – e ora invece è alla mercé altrui. Alla fine della pena, il governo britannico – e forse anche quello americano – chiederà l’estradizione. Quando un giornalista inglese ha provato a chiedergli un commento mentre usciva dall’aula Davis ha risposto: “Vaffanculo”.

 

La corrispondenza di Sommerville dal confine siriano rende bene l’idea di un problema tossico, di cui nessuno si vuole occupare: i ribelli anti Assad dicono che i disertori dell’Isis sono un fardello, ma non possono rimetterli in libertà perché sono pericolosi, il giornalista nota che le prigioni non sono per niente sicure, considerato chi ospitano, i governi occidentali non hanno una posizione ufficiale ma preferirebbero che i foreign fighter finissero uccisi nelle ultime, crepuscolari battaglie dello Stato islamico e non tornassero indietro. I contrabbandieri di uomini, che si fanno pagare molti soldi per aiutare i disertori dello Stato islamico a lasciare il territorio ancora in mano al gruppo, attraversare il fronte e dirigersi verso il confine, dicono di essere in contatto con i servizi di sicurezza occidentali, per metterli sull’avviso. Il numero di volontari in arrivo da fuori invece è quasi zero. Anche le prigioni dell’Isis, raccontano i fuggitivi, sono piene di persone che hanno tentato di disertare. “A volte ci sono uomini dello Stato islamico che fanno finta di essere contrabbandieri, promettono aiuto per scappare e poi invece ti arrestano”. Come nel 2010, quando lo Stato islamico senza più sostegno popolare e braccato da americani e iracheni attraversò la sua prima crisi quasi mortale (ma poi la superò), sono queste storie di disfacimento l’antidoto migliore all’ideologia e alle proiezioni di potenza del Califfato. Dove i predicatori dell’Isis facevano balenare immagini di gloria e trionfi guerreschi e una nuova vita, oggi c’è una distesa di rovine assediata dai nemici e sorvolata dai droni, da cui si paga per scappare.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)