Le purghe di Trump
Il presidente pensa a un rimpasto totale dopo il caso Comey. Forse non lo farà, ma intanto crea il clima
New York. Tira aria di purghe alla Casa Bianca. La surreale gestione del caso Comey ha fatto infuriare un presidente che, preso in contropiede da critiche che non aveva immaginato tanto intense, ha deciso infine di smentire la stessa motivazione presentata dalla Casa Bianca per il licenziamento del direttore dell’Fbi. E’ stata una decisione mia e lo avrei fatto a prescindere da ciò che dice il dipartimento di giustizia, ha detto infine il presidente, ignorando l’impalcatura costruita dal viceprocuratore generale per dimostrare che le colpe legate al caso Clinton erano all’origine della cacciata. Il sempre informato Mike Allen, direttore di Axios, racconta che una serie di amici, antichi alleati e consiglieri informali che Trump consulta al telefono con il favore delle tenebre, suggeriscono un radicale rimpasto della squadra di West Wing, che non è in grado di difendere l’immagine del presidente e di fermare il fiume di leak. I primi nel mirino sono i membri dello staff della comunicazione. Nella settimana più complicata, il portavoce Sean Spicer è sparito, chiamato per il turno di servizio occasionale della riserva della Marina, di cui Spicer fa parte. Prima di eclissarsi, però, è riuscito a farsi farsi trovare impreparato dai giornalisti che chiedevano spiegazioni a caldo nel giardino della Casa Bianca. Spicer non era stato informato tempestivamente della decisione, non aveva avuto tempo di mandare una segnalazione ai cronisti e così si è trovato a fronteggiarli di persona. Una goffa fuga vicino ai cespugli ha dato vita a un tragicomico tormentone. Il quotidiano Politico è arrivato a pubblicare una correzione di questo tenore: “Una fonte a conoscenza della posizione di Spicer quella sera ha detto che il portavoce era ‘vicino’ ai cespugli e non ‘fra’ i cespugli”. Date le circostanze, Spicer ha offerto a Trump di esentarsi dal servizio con la marina, ma il presidente ha rifiutato: voleva testare sotto pressione la sua vice, Sarah Huckabee Sanders.
Huckabee Sanders s’è l’è dapprima cavata in modo soddisfacente, secondo i criteri del presidente, ma quando le cose si sono complicate è intervenuto lui in prima persona, smentendo quanto la portavoce aveva detto nei giorni precedenti. In privato, Trump ha spesso dato voce ai suoi dubbi su Spicer, e ora i sospetti si sonoestesi anche ad altri membri dell’inner circle. Si dice che Steve Bannon, l’oscuro stratega e ideologo in crisi di influenza presso il presidente, non sia nemmeno stato consultato sulla decisione di licenziare Comey. L’arretramento di Bannon è coinciso con l’ascesa del consigliere economico Gary Cohn e di Dina Powell, viceconsigliere per la sicurezza nazionale che come Cohn è stata cresciuta alla scuola di Goldman Sachs. Su Comey Trump ha fatto invece affidamento sui suggerimenti di Roger Stone, il consigliere di Nixon e vecchio amico trumpiano che ha mantenuto un rapporto di consulenza informale da quando, nell’agosto del 2015, è stato spogliato da ogni ruolo elettorale. Si sa che nell’universo trumpiano la distinzione fra interno ed esterno è pressoché inesistente: il presidente è suscettibile a qualunque indicazione, non importa la provenienza. E’ appunto dall’esterno che vengono le indicazioni della necessità di un rimpasto.
Il nome del capo di gabinetto, Reince Priebus, è sempre citato quando si parla di teste che potrebbero saltare. L’entusiasmo per il passaggio della controriforma sanitaria alla Camera, cosa a cui Priebus ha lavorato molto, si è dissipato in fretta, e ora l’ex capo del partito repubblicano è tornato a fare il logorante e ingrato lavoro di raccordo fra l’amministrazione e un presidente che governa con le porte dello Studio Ovale spalancate. Tutte le voci entrano ed escono liberamente. L’ultima minaccia sventata da Priebus riguarda una notizia falsa sul cambiamento climatico che dal consiglio per la sicurezza nazionale è arrivata all’orecchio di Trump. Era stata K.T. McFarland a stampare per il presidente due copertine del Time, una degli anni Settanta che pronosticava una nuova era glaciale, una del 2008 sulla minaccia del riscaldamento globale. Una perfetta esibizione di ipocrisia dei media. Peccato che la prima delle due fosse falsa. Priebus lo ha notato prima che Trump potesse farne l’oggetto di una dichiarazione o di un tweet, ma l’episodio dà l’idea del clima. Normale che il rimpasto sia un argomento permanente della conversazione alla Casa Bianca.
Anche la consigliera Kellyanne Conway, volto televisivo del trumpismo e inventrice dei “fatti alternativi”, è data in crescente attrito con il presidente. Joe Scarborough e Mika Brzezinski nel loro programma detto che in segreto Kellyanne odia Trump, e nei fuori onda, quando i microfoni sono staccati, lamenta di volersi fare una doccia per togliersi di dosso la sprocizia di ciò che ha appena detto per difendere il presidente. C’è aria di purghe alla Casa Bianca, ma nell’immediato potrebbe non accadere nulla, ché Trump ha istituito il clima di crisi permanente come metodo di lavoro e dimensione della gestione del potere. Nella vita di costruttore e venditore di brand Trump si è sempre ribellato alle strutture, in quella di personaggio da reality show ha principalmente licenziato concorrenti inetti. Si è portato tutte le deformazioni professionali alla Casa Bianca.