Dossier, affinità di clan, speranze e pericoli di Trump in Arabia Saudita
In campagna elettorale erano i cattivi, ora i sauditi tornano partner strategici dell'America dopo la pausa obamiana. L'affare da cento miliardi
Roma. Come hanno imparato a loro spese l’ex direttore dell’Fbi, James Comey, e il presidente siriano, Bashar el Assad, non è vero che il Donald Trump Presidente è del tutto uguale al Donald Trump Candidato. È capace di voltafaccia repentini. L’Arabia Saudita potrebbe diventare l’esempio più chiaro di questa sua capacità. Durante la campagna usava parole durissime contro i sauditi: il 17 febbraio del 2016 li accusò di aver organizzato gli attacchi dell’11 settembre (accusò proprio il governo, quindi la casa regnante dei Saud, non i dirottatori), durante un intervento in diretta sul canale Fox; e al terzo dibattito presidenziale contro Hillary Clinton, quello finale a ottobre, usò la connessione tra i sauditi e l’ex segretario di stato come un argomento irresistibile per screditarla: “Buttano i gay giù dai palazzi, uccidono le donne, trattano le donne in modo orribile, eppure tu prendi i loro soldi”. La vicinanza con i sauditi era impugnata come un capo d’accusa all’interno di una visione ben definita: da una parte ci siamo noi, i trumpiani, e preferiamo orbitare attorno alla Russia e alla politica robusta di Vladimir Putin; dall’altra ci siete voi, i democratici, che parlate da sopra un piedistallo ma poi vi accompagnate con i peggiori figuri, inclusi i regni arabi. I sauditi non furono mai turbati dagli attacchi di Trump. Un giornalista del sito americano Intercept, Mehdi Hasan, scrive che già nel 2015 un diplomatico arabo gli rivelò che la campagna di Trump aveva avvisato la maggior parte dei governi del Golfo, in privato, che la retorica anti islamica e anti araba era soltanto roba da comizio, da non prendere alla lettera.
Si era già capito che era così quando il 12 febbraio il capo della Cia nominato da Trump, l’inflessibile anti iraniano Mike Pompeo, come suo primo viaggio all’estero scelse di andare a premiare il principe erede alla Corona saudita (e ministro dell’Interno) Mohammed bin Nayef. E anche quando i sauditi e tutti i regni del Golfo erano stati esclusi dalla lista dei sette paesi a rischio terrorismo islamista. Adesso anche il viaggio inaugurale del presidente Trump all’estero ha come prima destinazione l’Arabia Saudita. L’attesa del suo arrivo è alta, a Riad c’è un’atmosfera carica di eccitazione: nei viali ci sono bandiere saudite e americane per chilometri, e ritratti di re Salman e Trump con la scritta “Insieme vinceremo”, il sito del governo tiene il conto alla rovescia per l’inizio della conferenza dei 40 paesi che vedrà Trump pronunciare il suo discorso sull’islam e contro il terrorismo, ieri c’è stata anche una parata dell’Harley Davidson Club della capitale saudita, con giubbotti di cuoio e marmitte cromate. I sauditi salutano la restaurazione dell’intesa tra partner che l’Amministrazione Obama aveva trascurato fino a rompere. Ci si aspetta che Trump dichiarerà l’Arabia “partner strategico” e il Wall Street Journal parla del riavvicinamento come di una manovra funzionale a un’intesa discreta tra regni sunniti e Israele, in chiave anti iraniana.
Trump e i sauditi sono sulla stessa lunghezza d’onda, sentono l’affinità tra clan e soffrono la noia delle procedure. Il 1° maggio in una sala riservata di Washington il genero Jared Kushner ha trattato con una delegazione saudita l’acquisto di materiale bellico per più di cento miliardi di dollari: “Chiudiamo l’affare oggi”, ha detto agli ospiti. Aerei (ma non gli F-35, per non far preoccupare Israele, ché le novità geopolitiche sono interessanti ma è pur sempre il medio oriente) navi, bombe di precisione, radar antimissile. E quando quelli hanno protestato per il prezzo troppo alto ha chiamato al telefono Marillyn A. Hewson, capo esecutivo di Lockheed Martin, e ha chiesto se poteva abbassare il prezzo dei radar davanti alla platea incantata. Lei ha risposto che ci avrebbe pensato.
I consiglieri del presidente dovranno guidarlo in slalom tra alcuni dossier oscuri: non i diritti umani, Trump è stato chiaro – non daremo lezioni ad altri paesi – piuttosto la lotta di successione per il regno e la guerra in Yemen. La prima vede il principe ambizioso Mohammed bin Salman – che è andato a visitare Trump a marzo – provare a scalzare Bin Nayef, quello premiato da Mike Pompeo. La seconda è una catastrofe: i sauditi non riescono a disimpantanarsi e ora alla guerra s’è aggiunta una carestia, ma Trump promette un suo ruolo più decisivo.
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