L'Europa scopre che i banchieri non la stanno distruggendo, ma la stanno salvando
Lo stile Draghi, il modello Macron, il metodo de Guindos. Quante cose sono cambiate da quando nel 2015 Varoufakis paragonò i signori della finanza ai bombaroli islamici
Dice Mario Draghi, lo ha detto due giorni fa, che la crisi dell’Eurozona è ormai superata, che la disoccupazione scende, che la crescita sale, che le esportazioni migliorano, che il commercio si rafforza e che la ripresa che osserviamo oggi nell’Eurozona, nonostante, aggiungiamo noi, i molti uccellacci del malaugurio, è resistente, è solida, è sempre più ampia e sembra essere destinata ad avere un orizzonte non di breve termine. I dati di Draghi sono chiari e lineari. Le previsioni per il 2017 ci dicono che l’area euro, per la disperazione degli amici pessimisti, crescerà di una cifra vicina al 2 per cento (+1,7). Ci dicono che l’inflazione (occhio al Qe a fine anno) passerà dallo 0,2 per cento del 2016 all’1,6 per cento del 2017. Ci dicono che i consumi privati nel 2016 hanno toccato il livello più elevato mai raggiunto negli ultimi dieci anni. Ci dicono che la disoccupazione toccherà il livello più basso mai raggiunto dal 2009 a oggi (9,4 nel 2017, 8,9 nel 2018). Ci dicono che il commercio mondiale di cui beneficerà anche l’Europa è destinato a crescere in modo esponenziale arrivando a un +3,8 quest’anno e a un +3,9 il prossimo anno. I numeri descrivono però solo una parte statica del miracolo europeo. E accanto a queste percentuali da sballo c’è un fenomeno che merita di essere segnalato e che riguarda un dato culturale (e anche politico) inimmaginabile fino a qualche anno fa.
Nel giro di pochi anni è successo quello che nessuno si sarebbe mai immaginato di vedere. E così, d’un tratto, l’immagine dell’Europa distrutta dai banchieri brutti e cattivi complici dei terroristi della finanza – come sosteneva con affetto l’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis che nel 2015 paragonò i signori della finanza ai bombaroli islamici – è stata sostituita da un’altra immagine che merita di essere messa a fuoco: i banchieri eroi, che da entità sovrannaturali che dovevano distruggere un continente sono diventati le figure simbolo di un continente che oggi corre più veloce dell’America e che anche grazie a uomini cresciuti nelle banche potrebbe aver trovato le misure giuste per arginare l’ondata populista – con sane e utili iniezioni di buon capitalismo.
Mario Draghi, naturalmente, è la tessera numero uno del partito dei banchieri illuminati e se l’Europa, da qualche anno, ha ricominciato a crescere il merito è anche (soprattutto) dell’approccio scelto dal governatore centrale in questi anni: stimoli monetari in cambio di riforme strutturali. Ma di questo partito non possono che essere membri di primo piano anche altri due banchieri che da posizioni diverse possono cambiare (o possono continuare a cambiare) la nostra Europa. Da una parte, of course, c’è Emmanuel Macron, che prima di avvicinarsi alla politica ha lavorato a lungo (2008-2010) all’interno della banca d’affari Rothschild, dove si è formato culturalmente e dove ha acquisito competenze che gli sono tornate utili per fronteggiare la visione sovranista, anti europeista e nazionalista espressa in campagna elettorale da Marine Le Pen, dimostrando così che il populismo anti mercatista non lo si può affrontare se non ci si posiziona con nettezza a favore della globalizzazione, della concorrenza, della competizione e dell’apertura dei mercati. Dall’altra parte, nome forse meno conosciuto, c’è un personaggio favoloso che la storia di un paese d’Europa la sta cambiando da cinque anni. Quel signore è uno spigoloso e meraviglioso ministro spagnolo di nome Luis de Guindos. E’ ministro dell’Economia e della competitività della Spagna dal 2011, nel primo e nel secondo governo Rajoy. E’ anche lui un ex banchiere, con un passato in Lehman Brothers e uno in una importante banca spagnola (Banco Mare Nostrum). Ed è l’autore di una delle più importanti riforme registrate in Europa negli ultimi dieci anni: la riforma del mercato del lavoro spagnolo.
de Guindos (foto LaPresse)
Una riforma definita dallo stesso De Guindos nel 2012 “estremamente aggressiva”, che ha permesso al suo paese non solo di abbattere di quattro punti la disoccupazione (nello stesso periodo in Italia la disoccupazione è aumentata di tre punti) ma anche di crescere a un ritmo da sballo negli ultimi cinque anni. Durante i quali sono successe una serie di cose che vale la pena mettere insieme. I tassi di crescita sono tornati ai livelli degli anni del boom del 2009. L’economia, sia nel 2015 sia nel 2016, è cresciuta a un tasso superiore al 3 per cento. Nel 2017 le stime di crescita sono appena state riviste al rialzo e sono passate dal 2,5 al 2,7 per cento, un punto in più della media europea, ma lo stesso ministro dice che le stime sono ancora prudenziali e che anche il 2017 potrebbe chiudersi con una crescita pari a quasi il doppio rispetto a quella europea (3 per cento). Grazie alle riforme di De Guindos (e Rajoy) la Spagna ha arginato i populisti e reso inoffensivi i compagni di Podemos. Grazie all’approccio di Macron, e alla sua non ambiguità sui temi dell’Europa e della globalizzazione (e persino dell’uberizzazione), l’Europa ha capito che il modo migliore per arginare i populisti non è inseguirli sul loro stesso terreno ma è schierarsi con nettezza sul fronte opposto, “con il coraggio della verità”. Grazie agli stimoli di Draghi, infine, l’Europa ha cominciato a capire, sempre con maggiore chiarezza, che il problema, come ripete spesso il governatore centrale, non è l’euro, che ha prodotto benefici attraverso l’apertura del mercato, maggiore stabilità dei prezzi, minori tassi di interesse sul debito, certezze delle condizioni negli investimenti, ma è la mancanza di volontà riformatrice di alcuni paesi, che non hanno saputo sfruttare le condizioni favorevoli create dalla moneta unica per riformare le proprie economie.
Emmanuel Macron (foto LaPresse)
Draghi, Macron e De Guindos sono lì a dimostrare qualcosa di chiaro. L’alternativa al sovranismo non può essere il vecchio socialismo ma non può che essere una forma politicamente accettabile di sano e robusto capitalismo. Competenza batte incompetenza. Responsabilità batte irresponsabilità. Capacità batte incapacità. Apertura batte chiusura. “L’apertura del commercio – ha ricordato pochi giorni fa Mario Draghi a Losanna in uno dei suoi ormai sempre più recenti manifesti per la crescita – non ci viene imposta dalla natura né dalla tecnologia. Tuttavia è ormai diventata così radicalmente indispensabile per la nostra prosperità che nessun paese si può tagliare fuori dall’interscambio senza commettere un atto di profondo autolesionismo: due terzi delle importazioni dell’Ue riguardano infatti materie prime, beni intermedi e componenti necessari per i processi produttivi delle imprese. Ciò significa che, poiché il commercio presenta costi e benefici come altri tipi di sfide transfrontaliere, è una condizione da gestire insieme”. Ci sarebbe poi un quarto banchiere in giro per il mondo che potrebbe tentare di realizzare una missione impossibile, ovvero riequilibrare il numero uno dei populisti, e quel banchiere si chiama Gary D. Cohn. Cohn è l’ex chief operating officer di Goldman Sachs, oggi a capo del National Economic Council della Casa Bianca e gestisce le più importanti partite economiche dell’Amministrazione di Donald Trump. Evitare il crollo di The Donald sarà complicato ma le possibilità che avrà nei prossimi mesi Trump di sopravvivere politicamente passano anche da qui: da uno dei molti banchieri che tanto in Europa quanto in America stnno provando a raddrizzare il mondo.