Donald e Bibi
Una goffa smentita sull’intelligence macchia un viaggio quasi sobrio all’insegna del “principled realism”
L’immancabile momento d’imbarazzo in una missione altrimenti sobria è arrivato quando, in piedi accanto a Benjamin Netanyahu per le foto prima dell’incontro e solleticato dalla domanda di una giornalista che non era rivolta a lui, Donald Trump ha chiesto di nuovo il silenzio al pool di cronisti che stava per sciamare via: “Non ho mai pronunciato il nome di Israele”, ha detto quando ha finalmente avuto l’attenzione della platea. Il riferimento è all’incontro con il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, in cui Trump ha condiviso inopinatamente informazioni classificate raccolte in Siria da fonti israeliane, che le avevano passate alla Casa Bianca con un intricato accordo per tutelarsi dalla diffusione del materiale. E’ una smentita che conferma, in gergo tecnico un non-denial denial, genere paradossale in cui Trump eccelle. Nessuno, infatti, ha mai accusato il presidente di avere rivelato ai russi la provenienza delle informazioni, e il consigliere per la sicurezza nazionale, H.R. McMaster, ha anche fatto capire che Trump non sapeva nemmeno si trattasse di informazioni sensibili quando ne ha parlato con Lavrov e la delegazione russa. E’ stato il New York Times a rivelare l’alleato americano che aveva fornito il materiale. Specificando che lui “non ha mai parlato di Israele” Trump ha finito per confermare accidentalmente uno scoop del quotidiano più odiato, il “failing” New York Times, mentre accanto a lui Netanyahu, capendo dove si stava andando a parare, sornione ripeteva: “La cooperazione sull’intelligence è ottima”.
La visita in Israele era iniziata con messaggi chiari e alcuni segnali storici. Trump è il primo presidente americano in carica ad aver visitato il Muro del pianto (anche se Washington non lo ha riconosciuto come parte dello stato d’Israele e il presidente ha rifiutato di politicizzare la circostanza accettando di avere Netanyahu al suo fianco) ed è anche il primo ad aver preso un volo diretto fra Riad e Tel Aviv, simbolo visibile dell’operazione che il presidente americano persegue: consolidare un asse sunnita che assieme a Israele si oppone al blocco sciita guidato dall’Iran, disgraziatamente reso “ricco e prospero” da un accordo nucleare negoziato da Barack Obama che mette in pericolo gli alleati nella regione. Mozzare la mano tesa dal predecessore a Teheran era il primo obiettivo del segmento mediorientale del viaggio di Trump, che ha detto che l’Iran è il collante che tiene insieme gli stati arabi che ha incontrato a Riad nel fine settimana e Israele. Dopo l’incontro con il presidente israeliano, Reuven Rivlin, Trump ha legato il tema anche alle aspirazioni dei palestinesi, cose che il governo israeliano tiene separate: “Mi hanno molto incoraggiato le conversazioni con i leader del mondo musulmano in Arabia Saudita, incluso re Salman, con il quale ho parlato molto a lungo. Il re vorrebbe vedere, ve lo posso assicurare, la pace fra israeliani e palestinesi”.
E’ uno dei punti di attrito in una relazione che dal punto di vista di Netanyahu è imparagonabile a quella con Obama, fatta di antipatie personali e sgarbi politici. Trump ha fatto campagna come alleato inflessibile e totale di Israele, ha agitato la possibilità di abbandonare la politica della soluzione a due stati, ha incoraggiato la politica del governo sugli insediamenti e ha lanciato la proposta di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme, salvo poi ritrattare su tutti i fronti quando ha dovuto convertire l’immagine di amico incondizionato in quella del gran negoziatore che ambisce a propiziare l’“ultimate deal” fra Israele e Palestina. Sono le conseguenze della dottrina del “principled realism” articolata, in modo invero ultrasemplificato, in Arabia Saudita, dove ha invitato il più grande stato sponsor del terrorismo a “cacciare i terroristi dalla faccia della terra”. Seguendo lo stesso schema, a Gerusalemme ha suggerito alle parti di fare la pace. Oggi Trump incontra Abu Mazen a Betlemme e ha in programma una visita al memoriale dell’Olocausto che qualcuno, in Israele, ha giudicato troppo breve e sacrificata. Il discorso saltato, per ragioni logistiche e climatiche, alla fortezza di Masada e una certa leggerezza nell’organizzazione della visita hanno fatto storcere il naso a diversi ministri del governo di Netanyahu. Infuriato, il primo ministro ha dovuto emettere una nota ufficiale ai membri del gabinetto per ricordare che la partecipazione alle cerimonie diplomatiche è obbligatoria.