Sánchez spinge sull'intransigenza dopo la vittoria-choc alle primarie
Il neo segretario dei socialisti spagnoli ha consumato la sua vendetta sull’establishment, e ora passa a Rajoy
Roma. L’incubo della sinistra moderata europea si è dispiegato in tutta la sua forza domenica in Spagna. Dopo la Francia e il Regno Unito (e in modi diversi il Portogallo e la Grecia), le primarie interne allo storico partito del centrosinistra iberico, spinte dalla rabbia dei militanti e dal desiderio di sconfiggere il populismo con altro populismo, hanno generato una nuova leadership intransigente ed estrema, pronta a mettere in pericolo la stabilità del paese. Con la differenza che, mentre a Parigi e a Londra ci sono un Emmanuel Macron e una Theresa May pronti a mettere una pezza alle turbolenze del socialismo irresponsabile, a Madrid il governo di minoranza del conservatore Mariano Rajoy adesso è in pericolo.
Pedro Sánchez, segretario generale del Partito socialista spagnolo (Psoe) fino a ottobre scorso, quando fu defenestrato da un coup della componente più moderata del partito, ha rivinto le primarie con il 50 per cento dei voti , battendo l’andalusa Susana Díaz (l’autrice del coup, 40 per cento) e il non allineato Paxti López (10 per cento) nel confronto più spietato della storia socialista, al punto che molti hanno visto il Psoe sull’orlo di una scissione. Pur essendo il segretario uscente (da ottobre fino a domenica il partito è stato guidato ad interim da Javier Fernández), Sánchez non era il favorito per la vittoria. Un rapido elenco delle ragioni: da segretario, Sánchez ha portato il socialismo spagnolo alle sue due peggiori sconfitte elettorali della sua storia (20 dicembre 2015, 90 deputati e 26 giugno 2016, 85 deputati); eletto come un riformatore moderato, quasi un renziano (ricordate le camicie bianche di Bologna? Sánchez era splendente sul palco), si è trasformato ben presto in un intransigente tanto nel programma economico quanto, soprattutto, nelle tattiche politiche; la sua intransigenza l’ha portato ad avvicinarsi ai populisti di Podemos, la formazione di estrema sinistra il cui obiettivo esplicito è da sempre quello di pasokizzare il Psoe (da Pasok, il Partito socialista greco cannibalizzato da Syriza): Pablo Iglesias e i suoi ci sarebbero anche riusciti se l’establishment del partito non si fosse ribellato a Sánchez.
La scelta, insomma, sembrava scontata, tanto più quando dall’altra parte c’era la Díaz, baronessa per antonomasia del partito, dominatrice del fortino dell’Andalusia, donna d’establishment giovane ed energica con un’aura da vincente attorno a sé.
Qui però arriva quello che il País, in un editoriale impensabile per il giornale più vicino in assoluto al socialismo spagnolo, ha chiamato “la Brexit del Psoe”: la scelta tra ragionevolezza (seppur con mille manchevolezze e problemi) e ignoto è cristallina, ma i militanti socialisti si sentono poco ragionevoli. Sánchez stravince con tutti i baroni di partito contro, e il suo primo atto è quello di mandare messaggi di distensione a Podemos e di promettere che il governo di Rajoy, nato grazie all’astensione del Psoe post Sánchez, cadrà il prima possibile.
Il primo ministro ieri ha ribadito ai giornalisti che “non ci saranno elezioni anticipate” in Spagna, e che lui arriverà alla fine del mandato con o senza l’aiuto dei socialisti. Non ho ancora chiamato Sánchez “per non disturbarlo”, ha detto Rajoy con il suo abituale tono sprezzante. Ma nel frattempo il neo segretario socialista intesseva contatti telefonici con Iglesias di Podemos, che subito ha proposto di presentare una mozione di sfiducia congiunta contro il governo, per “sloggiare il Partito popolare dalle istituzioni”. Una mozione di sfiducia di Psoe e Podemos non può funzionare anzitutto perché i due partiti, da soli, non hanno la maggioranza assoluta al Congresso dei deputati, e poi perché parte dei parlamentari socialisti si ribellerebbe all’idea di andare a nuove elezioni quasi certamente perdenti. Ma sarebbe comunque un segnale preoccupante per la stabilità del paese, perché significherebbe che la Grande coalizione di fatto che si è creata in Spagna in questi mesi, in cui molti provvedimenti chiave sono stati approvati dal Pp con il sostegno del Psoe, è ormai distrutta, e il governo di minoranza di Rajoy dovrà faticare il doppio per approvare qualsiasi provvedimento, raccogliendo maggioranze improvvisate e parlamentari “responsabili” di volta in volta: molti osservatori sono stati concordi nel sottolineare come ormai la stagione delle riforme di Rajoy potrebbe essere finita definitivamente, anche se il governo dovesse resistere.
Sánchez ha molti modi per rendere la vita impossibile a Rajoy, a partire dalla legge sul Budget 2017, necessaria per far andare avanti la pubblica amministrazione e per sua natura di difficilissima gestazione: il Pp da settimane sta cesellando emendamento dopo emendamento per favorire un voto positivo del Psoe, ma lo sforzo sembra ormai vano. La performance economica della Spagna in questi anni è stata encomiabile, ma Madrid, è noto, non è ancora uscita del tutto dalla crisi, e perfino ieri la Commissione europea raccomandava al governo nuove misure anti deficit come l’aumento dell’Iva.
L’altro tema determinante è quello dell’indipendenza della Catalogna. Ieri il governatore di Barcellona, Carles Puigdemont, ha ribadito la volontà di celebrare un referendum separatista à la Brexit, mentre il País rivelava le bozze riservate della legge “di rottura” che il governo locale intende approvare se Madrid dovesse negare la consultazione popolare: indipendenza unilaterale, assunzione da parte della nuova entità statale dei dipendenti pubblici spagnoli, presa di possesso dei beni dello stato spagnolo in territorio catalano, riforma della Giustizia con pieno controllo dell’esecutivo sul giudiziario. Fino a un anno fa, Rajoy poteva contare su un fronte nazionale unito nella questione catalana: i popolari, i socialisti e i centristi di Ciudadanos erano concordi nel condannare l’indipendentismo. Ma adesso che Sánchez guarda con favore alle posizioni aperturiste di Podemos anche in tema di Catalogna, nemmeno l’unità nazionale è più garantita.