Europeisti in Libia
Parigi non snobba più Serraj “l’italiano”. L’Egitto bombarda in Libia ma l’Isis è dentro casa
Roma. Le forze francesi a Bengasi erano alloggiate dentro il perimetro dell’aeroporto Benina, in un’ala nascosta che ospitava anche un gruppo di incursori italiani del 9° Reggimento d’assalto – ma gli italiani erano lì soltanto in qualità di osservatori. Si può dire che all’interno del governo del predecessore di Macron, François Hollande, ci fosse una divisione di ruoli quando si parlava di Libia: il ministero degli Esteri stava con Serraj e il ministero della Difesa, guidato da Yves Le Drian, era schierato con Haftar. Ora che dopo le elezioni Le Drian è stato spostato agli Esteri, era sembrato più che naturale che il suo portavoce, Romain Nadal, avesse subito fatto un comunicato molto a favore di Haftar e senza nemmeno nominare Serraj: “La Libia ha bisogno di costruire un esercito nazionale con la partecipazione di tutte le forze che combattono contro il terrorismo in tutto il paese, incluse quelle del generale Haftar”. Ora però Macron, sul Corriere della Sera di domenica, indica la linea politica: “In Libia dobbiamo tutti sostenere Serraj”, dove con “tutti” intende anche la Germania di Angela Merkel. Considerato che l’Amministrazione Trump non ha ancora speso una parola sulla Libia e che come ha detto Merkel ora l’Europa deve imparare a fare da sola, e considerato anche che la Libia è centrale per almeno tre dossier importanti: terrorismo, energia e immigrazione, allora il presidente francese ha scelto di mettere la Francia al servizio del progetto di riconciliazione libica che l’Italia spinge avanti con ostinazione da fine 2015. Il disegno prevede, in teoria, un grande accordo per piazzare Haftar ai vertici del potere militare e lasciare Serraj al comando del governo. In teoria, perché nella pratica est e ovest della Libia ancora in questi giorni combattono una guerra brutale nel deserto a sud di Sirte, fatta di scontri improvvisi e di pause lunghe.
Su Repubblica Carlo Bonini offre una ricostruzione colpevolista che era girata parecchio anche sui social in questi giorni e lega lo stragista di Manchester ai servizi segreti inglesi. Il collegamento sarebbe il padre, Ramadan al Obeidi, una figura molto controversa che faceva parte degli anni Novanta del Gruppo islamico di combattimento in Libia (molto conosciuto con la sigla Lifg), una fazione legata ad al Qaida su cui però i servizi segreti inglesi chiudevano un occhio, perché in Libia faceva la guerriglia contro Gheddafi. In realtà nella ricostruzione mancano due elementi. Il primo è che molti appartenenti al Lifg sono poi passati alla vita civile, Gheddafi accettò la capitolazione del gruppo nel 2009 e nel 2011 dopo la rivoluzione alcuni tentarono una svolta politica – in completa contrapposizione con al Qaida, che aborre elezioni e partiti. Per esempio il leader Abdul Hakim Belhadj, che fece causa al governo di Londra per una extraordinary rendition, divenne sindaco di Tripoli e oggi è il padrone di una linea aerea libica. Il secondo elemento è che Salman, il figlio stragista, e il fratello Hashim si erano arruolati entrambi nello Stato islamico. Può darsi che l’imprinting jihadista fosse molto forte in famiglia, ma l’Isis è una marca diversa, è un gruppo di rottura rispetto al padre passato dalla lotta armata alle foto ai seggi elettorali di Tobruk messe su Facebook nel luglio 2012. L’Isis ha una linea chiara su un familiare ex qaidista che poi passa alla politica e collabora con il ministero dell’Interno di Tripoli: è un traditore al cubo, un bersaglio naturale da eliminare. Insomma, lo storytelling “il massacro di Manchester è colpa della politica inglese” ha dei buchi di sceneggiatura.
Dopo la strage di 29 cristiani copti in Egitto di venerdì scorso, l’aviazione del Cairo ha bombardato alcuni siti in Libia – “campi di addestramento jihadisti” , così ha definito i bersagli. E’ probabile tuttavia che il gruppo dello Stato islamico che ha massacrato i cristiani non si sia mai mosso da quella stessa zona, l’Alto Egitto, che da sempre ha problemi di infestazioni estremiste (la strage di turisti a Luxor nel 1997, per esempio). I siti colpiti in Libia sono lontanissimi, a più di mille chilometri di distanza, e molto probabilmente non c’entrano nulla. Bombardare per rappresaglia anche Derna, dove i gruppi islamici locali cacciarono lo Stato islamico armi in pugno nel luglio 2015, suona come una beffa. E’ possibile che l’Egitto abbia approfittato della strage di copti come giustificazione per compiere raid aerei contro il fronte avversario in Libia, quindi i gruppi che combattono contro il feldmaresciallo Khalifa Haftar, di cui l’Egitto è il grande padrino politico. Da Tripoli il governo Serraj ha chiesto all’Algeria di dire al presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, di cessare i raid aerei (l’Algeria è usata come canale di collegamento in questi casi).
Tra le altre notizie importanti dalla Libia, domenica è arrivato lo scioglimento ufficiale del gruppo Ansar al Sharia, che era il gruppo estremista più potente del paese assieme allo Stato islamico, ma pendeva dalla parte di al Qaida – nella spaccatura grande che attraversa il mondo del jihad. Il gruppo, che tra le altre cose è responsabile della morte dell’ambasciatore americano Chris Stevens nel settembre 2012 a Bengasi, abbandona il campo per logoramento. Senza leader e senza risorse, non riesce più a combattere. Lo Stato islamico invece, dopo la disfatta di Sirte trascinata fino a dicembre, mostra di nuovo segni di vitalità. I canali Telegram hanno ripreso a comunicare, le forze libiche compiono arresti qui e là, ci sono scaramucce e ovviamente c’è la storia dello stragista di Manchester e del fratello.