L'Europa inizia a fare i calcoli di un "no deal" sulla Brexit
Il premier inglese May ritorna sull’uscita dall’Ue e dice: sono pronta. La risalita del Labour e un paper europeo
Bruxelles. Di fronte all’inattesa ripresa del Labour nei sondaggi, che mette a rischio quello che doveva essere un facile plebiscito per ottenere tutto il potere nei prossimi cinque anni, Theresa May sta cercando di trasformare le elezioni del 8 giugno in un nuovo referendum. Dopo quello della Brexit del 23 giugno 2016, tra poco più di una settimana gli elettori britannici sono chiamati a scegliere tra la sua “leadership forte e stabile” e “la coalizione del caos” di Jeremy Corbyn, ha spiegato May. Se diventerà premier, Corbyn si ritroverà “solo e nudo nella sala dei negoziati” della Brexit. “Solo noi abbiamo la volontà e il piano per fare della Brexit un successo”, ha avvertito la leader Tory. Le debolezze del suo avversario laburista sono molte. Corbyn “non è pronto a usare il deterrente nucleare; non è pronto a agire contro i terroristi; non è pronto a dare alla polizia i poteri di cui ha bisogno per tenerci al sicuro”. Ma la Brexit è la “questione fondamentale” che definirà il futuro del Regno Unito. “I negoziati inizieranno appena undici giorni dopo le elezioni, e Corbyn non è pronto. Io sono pronta”, ha detto May: “Pronta a prendere le difficili decisioni che la leadership richiede. Pronta a fare ciò che è necessario per proteggere il nostro paese”, ha spiegato la premier, lasciando nuovamente intendere che potrebbe abbandonare il tavolo senza un accordo sulla Brexit. Il “no deal” che è meglio di un “bad deal” eccita i brexiteers e i tabloid. Ma si sentono sempre più voci contro l’ipotesi del “no deal” e sul fatto che la premier non abbia ancora spiegato cosa significhi. Sul piano europeo, l’escalation retorica di May sta spingendo i partner verso una Brexit sempre più punitiva. “Il pericolo è che il ‘no deal’ diventi una profezia che si autoavvera”, spiega al Foglio una fonte comunitaria.
Theresa May dice che se Corbyn dovesse vincere al voto dell'8 giugno "si troverà solo e nudo nella sala dei negoziati". Bruxelles scandisce il tempo delle trattative, ma la questione del "no deal" pesa al punto che una fonte comunitaria ci dice: "C'è il rischio che si trasformi in una profezia che si autoavvera".
L’Ue finora aveva puntato su una facile rielezione di May, con la convinzione che un mandato forte avrebbe facilitato le concessioni necessarie per arrivare a un accordo sulla Brexit. I negoziati inizieranno il 19 giugno e il caponegoziatore Michel Barnier vuole presentare il suo primo rapporto ai capi di stato e di governo quattro giorni dopo. Per l’Ue è fondamentale avere un interlocutore che abbia i pieni poteri. Ma i toni della campagna elettorale hanno fatto emergere dubbi sulla volontà di May di arrivare a un divorzio consensuale. I suoi passi falsi e le sue ambiguità spingono alcuni a chiedersi se abbia davvero un piano per la Brexit. L’attitudine sempre più negativa degli europei si riscontra in dichiarazioni pubbliche e documenti ufficiali. Domenica la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha messo il Regno Unito sullo stesso piano dell’America di Donald Trump tra i paesi su cui “non si può più fare affidamento”. Il presidente francese, Emmanuel Macron, non ha fatto concessioni nel suo incontro con May a Taormina. Le direttive negoziali adottate dai 27 sono state riempite di richieste inaccettabili per i britannici, come riconoscere i diritti dei cittadini europei e delle loro famiglie anche se si saranno installati nel Regno Unito il giorno prima dell’uscita, o il pagamento delle pensioni degli eurocrati con passaporto britannico. Secondo un alto funzionario, “è probabile che si verifichi un incidente prima della fine dell’anno, in particolare sul conto che il Regno Unito dovrà pagare per uscire”.
John Springford e Simon Tilford del think tank Centre for European Reform, in un paper intitolato “No Deal”, hanno ricordato a May e ai britannici le conseguenze. Da un giorno all’altro, il 30 aprile del 2019, l’Ue imporrebbe tariffe su tutti i prodotti britannici: in media sono del 4 per cento, ma per i prodotti alimentari si arriva al 14 per cento e per le automobili al 10. L’uscita dall’unione doganale permetterebbe ai 27 di imporre controlli sulle regole d’origine (misure antidumping, etichettature, standard), bloccando le merci britanniche alle frontiere per settimane o mesi (molte piccole imprese smetterebbero di esportare nell’Ue, dicono i due autori). Ma forse “l’aspetto più dannoso” di un “no deal” è che fuori dal quadro legale dell’Ue molti prodotti britannici non avrebbero più le autorizzazioni necessarie per essere venduti nell’Ue. Vale per i medicinali e i prodotti chimici. Ma vale anche per i servizi: le compagnie aeree britanniche perderebbero le autorizzazioni a volare nell’Ue, così come le banche e le altre imprese finanziarie perderebbero il passaporto per fare affari nei 27 Stati membri. L’Evening Standard di George Osborne ieri ci è andato giù duro con la tattica di May: “Gli elettori britannici hanno bisogno di risposte sulla Brexit”. Nei prossimi otto giorni in molti potrebbero scoprire che il possibile “no deal” di May potrebbe rivelarsi molto più pericoloso dell’improbabile “bad deal” di Corbyn.
L'editoriale dell'elefantino