L'ossessione climatica contro Trump
Il presidente americano non è la guida del mondo libero, ma l’accordo di Parigi non c’entra. L’iperbole collettiva
New York. Emmanuel Macron ha offerto asilo agli scienziati americani oppressi dalla dittatura antiscientifica di Donald Trump, il cardinale Marcelo Sánchez Sorondo ha parlato di un “disastro per l’umanità e per il pianeta”, Leonardo DiCaprio ha detto che il presidente “mette a repentaglio la vivibilità della terra”, mentre Tom Steyer, il più importante finanziatore americano delle cause ambientali, ha definito la decisione di uscire dall’accordo di Parigi “un proditorio atto di guerra contro il popolo americano”. Ha detto proprio così: un atto di guerra contro il popolo americano. Il commentatore Fareed Zakaria, noto maestro delle conclusioni tirate in fretta, ha sentenziato: “Trump ha abdicato dal ruolo di leader del mondo libero”. Non è facile restituire fedelmente la vastità, la ricchezza e la profondità delle critiche che sono arrivate al presidente americano da tutti i paesi del mondo, tranne Siria e Nicaragua, per la decisione annunciata mercoledì. Il comune denominatore è una certa tendenza iperbolica, apocalittica. Trump non è stato criticato per una posizione politica a proposito di un accordo sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica, è stato assalito come promotore di uno sterminio di massa per interposto cambiamento climatico, ridotto a nemico dell’umanità, dipinto come un’oscura forza antistorica che si oppone all’ordinato e ineluttabile svolgersi del Progresso.
Molti degli osservatori più prudenti e realisti sulle questioni climatiche sono diventati attivisti pronti a incatenarsi da qualche parte per sostenere un accordo così flessibile da piacere contemporaneamente alle multinazionali del petrolio, a Greenpeace e al politburo di Pechino. Molto probabilmente aveva ragione il New York Times a suggerire al presidente la manovra tattica di non togliersi dall’accordo per poi negoziare condizioni migliori dall’interno, ma Steve Bannon ha le sue ragioni che la ragione non conosce (spesso nemmeno Trump le conosce). Ma da queste considerazioni all’operazione di collettiva reductio ad Hitlerum la strada è lunga. Trump non è il leader del mondo libero, ma questo non si è scoperto l’altro giorno. Al netto delle evidenti contraddizioni che Mike Pence va propalando, Trump è il primo presidente non eccezionalista nella recente storia americana, gli Stati Uniti per lui non sono né la “nazione indispensabile” né l’ultima speranza per l’umanità, tutta l’impostazione nazionalista dello sghembo discorso trumpiano tende a mettere in discussione l’idea stessa di un mondo libero guidato dalla fiaccola americana. Non è certo l’uscita dall’accordo di Parigi il discrimine. E invece, dopo anni di incessanti pressioni per formare correttamente l’opinione pubblica, la questione climatica si è trasformata da argomento di ordinario dibattito politico e culturale a linea rossa che separa il civile dal barbaro, il decoroso dall’inaccettabile, il razionale dal folle, il sano dal patologico. Anche all’interno della Casa Bianca si è vista la separazione.
Quando Trump ha detto al mondo che è stato eletto per rappresentare i cittadini di Pittsburgh e non quelli di Parigi, Ivanka era a casa a celebrare la festa di Shavuot. Suo marito, Jared Kushner, era nel suo ufficio per un incontro programmato prima che il presidente mettesse in agenda la dichiarazione al giardino delle rose. Quella minoranza della cerchia trumpiana che ancora crede di potersi guadagnare un posto dalla parte giusta della storia non si è fatta vedere nell’assolato pomeriggio di Washington, dove i dominatori della scena erano Bannon e i suoi. Il giorno dopo, Ivanka ha compensato la causa liberal persa abbracciando con enfasi la comunità lgbt che celebra il mese dell’orgoglio.