Theresa, i poliziotti e le polemiche a pochi giorni dal voto
Si identificano vittime e terroristi dell’attacco al London Bridge, mentre la May viene attaccata su tutti i fronti (anche quello conservatore) per non aver fatto abbastanza contro il terrorismo. La modalità “vale tutto”
Questo non è il momento per imparare a fare un nuovo lavoro, un lavoro da leader di un paese, ha detto oggi Theresa May, premier britannico, difendendo la propria competenza e la propria leadership “forte e stabile” all’indomani dell’attacco terroristico a Londra – 7 morti, 48 feriti – e a poche ore dalle elezioni di giovedì. Io sola posso guidare il Regno Unito in mezzo a queste sfide, sicurezza, terrorismo, Brexit, ripete la May, ma nulla sembra bastarle più: è sotto attacco su tutti i fronti. Faide politiche, accuse al suo operato di quando era al ministero dell’Interno, e la ricostruzione del profilo degli attentatori a Londra non fanno che aumentare le pressioni: un’altra cellula sfuggita alle segnalazioni e ai controlli, pur avendo partecipato a un gruppo terroristico bandito e aver inneggiato allo Stato islamico. Quando era all’Home Office, la May mise in pratica le regole dei tagli imposte dal governo, ma ora mancano all’appello 20 mila poliziotti – tagliati dal 2010 al 2016: austerità e sicurezza in discussione in un attimo solo – e gli avversari della May le chiedono di assumersene responsabilità. O meglio: il sindaco di Londra, Sadiq Khan, alle prese con le accuse di Trump e difeso dalla stessa May, dice che la polizia della città è sottodimensionata per colpa dei tagli. Mentre il leader del Labour, Jeremy Corbyn, che si è dimostrato un gran cacciatore di opportunità politiche durante la campagna elettorale pure se riesce a pasticciare anche le intuizioni più ciniche, dice: la May dovrebbe dimettersi.
Quando a chiedere le dimissioni del premier, alla vigilia del voto, dopo due attentati brutali nel giro di un paio di settimane, non è soltanto il tuo principale rivale ma anche un guru conservatore, si capisce che ormai vale tutto, nel momento in cui invece dovrebbe essere l’unità a prevalere. Steve Hilton, consigliere calvo e scalzo dell’ex premier Cameron, sostenitore della Brexit ormai emigrato in America dove flirta con il trumpismo, ha tuittato: la May “è responsabile del fallimento della sicurezza negli attentati al London Bridge, a Manchester e a Westminster. Dovrebbe dimettersi piuttosto che cercare la rielezione”. Messi in fila, gli attentati recenti gettano un’ombra sulla capacità di prevenzione terroristica del paese: la May si è difesa spiegando che dal 2015 in poi, e soprattutto da quando è arrivata a Downing Street l’anno scorso, l’investimento in risorse e persone nella sicurezza è aumentato – ma sui numeri ci sono ancora polemiche. Un piccolo risultato però May l’ha ottenuto: Corbyn ha ritrattato la richiesta di dimissioni del premier, anche perché sulla sua versione della lotta all’estremismo ci sono parecchie perplessità – in trent’anni di carriera parlamentare, il leader laburista ha votato contro le misure di controterrorismo e di intervento all’estero.
La campagna elettorale inglese, partita come una passeggiata gloriosa per la May, è diventata accidentata e altalenante, oltre che tristissima, scandita dalle immagini delle vittime e dei loro sorrisi perduti. Le previsioni variano di molto: c’è chi dà i Tory con dieci punti percentuali di vantaggio e chi dice che invece perderanno seggi preziosi, quasi pareggiando con i laburisti. Pure i sondaggisti sono entrati nella modalità vale tutto.