Seul ferma lo scudo antimissile per sfilarsi dall'influenza Usa
Per il presidente sudcoreano Moon Jae-in l'installazione di altri quattro lanciatori del Thaad non è una “questione urgente”. Dalla Casa blu tentativi di dialogo con la Corea del nord
Roma. Non è una “questione urgente”, l’istallazione degli ulteriori quattro lanciatori del Thaad, il sistema antimissilistico americano dispiegato sul suolo sudcoreano. E così ieri la Casa Blu, il palazzo della presidenza di Seul, ha ufficialmente “sospeso” l’implementazione del Terminal High Altitude Area Defense, spiegando che prima di procedere al perfezionamento dello scudo antimissile (che è fatto di una batteria di sei lanciatori, 48 intercettori e un radar) c’è bisogno di un approfondito studio sull’impatto ambientale dello stesso – un’indagine che secondo gli esperti durerà almeno un anno. Dunque il Thaad non entrerà in piena funzione entro la fine del 2017, come auspicavano il Pentagono e i vertici del ministero della Difesa sudcoreano.
A Seongju, intorno ai 700 mila metri quadrati che la Lotte group. ha concesso alla Lockheed Martin per il posizionamento dello scudo, da mesi i cittadini protestano contro la repentina militarizzazione dell’area. Ed è stata la stampa locale a far uscire il problema che ha portato alla decisione della Casa Blu: il presidente sudcoreano Moon Jae-in, eletto meno di un mese fa, non sarebbe stato informato del fatto che sarebbero dovuti arrivare in fretta gli altri quattro intercettori. Non solo: la legge sudcoreana dice che è obbligatorio uno studio sull’impatto ambientale sulle istallazioni militari più grandi di 300 mila metri quadrati, anche se il ministero della Difesa del precedente governo di Park Geun-hye aveva lottizzato il terreno per evitare di perdere tempo con la burocrazia.
Il Thaad era arrivato in Corea del sud a fine aprile, praticamente una settimana prima che i sudcoreani andassero al voto. Un’accelerazione dovuta alle provocazioni nordcoreane, ma anche alla percezione della minaccia amplificata dal presidente americano Donald Trump e dall’invio della “big armada”. Detto in altre parole, i lavori per l’istallazione dello scudo antimissilistico sono iniziati quando in Corea del sud c’era un vuoto di potere. E in realtà, tra gli attriti che esistono tra Seul e Washington c’è anche un difetto di comunicazione: la Casa Bianca non ha ancora scelto il suo ambasciatore a Seul, mentre quello a Tokyo e quello a Pechino sono già stati assegnati.
Moon Jae-in, il democratico eletto a furor di popolo in Corea del sud, ha vinto anche grazie al suo desiderio di riaprire i canali di dialogo con Pyongyang ed evitare l’ennesima escalation di tensione con la Corea del nord.
“La tensione permanente che esiste nella politica estera sudcoreana”, ha scritto Scott A. Snyder, direttore del programma Us-Korea del Council on Foreign Relations su Asia Unbound, “è da una parte il desiderio di autonomia, dall’altra la necessità dell’alleanza con l’America – un’alleanza che ha impedito la guerra e ha permesso alla regione di prosperare per oltre sessant’anni. Il cambiamento di potere in Corea del sud, dai conservatori a una leadership progressista, porterà progressivamente a un ulteriore passo verso l’autonomia, sul modello del predecessore liberal di Moon, Roh Moo-hyun”.
Secondo alcuni analisti, tra cui Stephen R. Nagy dell’International Christian University di Tokyo, con il vizio di forma eccepito ieri per sospendere l’istallazione completa del Thaad, Moon sta cercando un modo per ridurre la dipendenza da Washington (durante la campagna elettorale, aveva detto: “La Corea del sud deve imparare a dire di no all’America”). In mezzo a tutto questo c’è la Cina, che dallo scorso anno porta avanti un boicottaggio economico contro la Corea del sud, colpevole di aver “autorizzato” l’istallazione del Thaad sul suo territorio. Forse la mossa dell’Amministrazione Moon, caldeggiata dalle lobby del settore turistico e del commercio (quelli i più colpiti), serve anche ad alleggerire la ritorsione cinese. Nel frattempo, scrive Snyder, il Thaad è sempre più una questione politica, più che di sicurezza.
I conservatori inglesi