Medellin, la città colombiana simbolo del narcotraffico (foto LaPresse)

Nella città di "Narcos" si vuole distruggere il ricordo di Escobar (ma non tutto)

Eugenio Cau

Come si gestisce la memoria di vent'anni di terrore?

Roma. Medellín è la Milano della Colombia. Una delle città più avanzate del paese, centro degli affari, i cui abitanti, i paisa, sono formati in parti sempre più consistenti da una borghesia ben pasciuta, simbolo di un paese che, nonostante le molte avversità, è oggi uno dei più stabili dell’America latina. Il sistema di trasporti pubblici di Medellín è un fiore all’occhiello per l’intero continente, i servizi funzionano, l’economia tira. Ma Medellín è tutt’altro che la città funzionale ed efficiente che i suoi dirigenti vorrebbero mostrare. E’ il luogo d’origine di Pablo Escobar, il più sanguinario narcotrafficante di tutti i tempi, autore di una leggenda nera che da decenni sembra inesauribile. Escobar era un figlio di Medellín, lì ha fondato le basi del suo potere, e la sua leggenda ha messo radici così profonde da sembrare inestirpabili. In città esiste ancora un quartiere che – ovviamente in via non ufficiale – è ancora chiamato da molti “barrio Pablo Escobar”. Nel barrio, molti vecchi abitanti hanno appesi in casa ritratti di Pablo, che all’inizio della sua carriera criminale riciclò denaro in grandi opere pubbliche a Medellín, facendosi chiamare dai media il “Robin Hood paisa”, il Robin Hood di Medellín. I luoghi dove il narcotrafficante ha agito e vissuto sono oggi meta di tour turistici e pellegrinaggi di celebrity in cerca di controversie. Di recente il rapper americano Wiz Khalifa si è fatto fotografare mentre posava fiori sulla tomba di Escobar: il gran successo di “Narcos”, la serie americana di Netflix dedicata alla vita del narcotrafficante, non ha fatto che rinverdire il mito.

 

Per alcuni, la leggenda di Escobar è un’occasione per attirare turismo e curiosi in città: in fondo anche a Londra esistono i tour turistici dedicati a Jack lo squartatore. Per altri tuttavia, a meno di 25 anni dalla morte del capo narcos, il ricordo delle autobombe, delle migliaia di morti, dei parenti trucidati, dell’attacco agli edifici delle istituzioni, dei sabotaggi aerei è ancora troppo vivido per poter essere derogato a curiosità per turisti. Escobar ha aperto a Medellín una ferita che ancora non si è rimarginata, e tra quelli che ne sono convinti c’è il sindaco della città, Federico Gutiérrez, un tipo tostissimo che sostiene che l’eredità di Escobar sia un affronto a Medellín. Il mese scorso Gutiérrez ha annunciato che intende fare abbattere l’edificio Mónaco, una palazzina in uno dei quartieri più esclusivi della città che fu a lungo la residenza della famiglia Escobar e che è diventata negli anni il simbolo del terrore del narcotrafficante e il fulcro dei pellegrinaggi in suo onore. Intorno all’edificio fortificato di Escobar negli anni scoppiarono autobombe, si concentrò la guerra tra governo e criminalità, e il sindaco vorrebbe infine distruggere questo continuo memento di un’epoca buia e farci un memoriale per le vittime della guerra al narcotraffico.

Gutiérrez è uno che ha insistito spesso su questi temi. Quando il rapper Wiz Khalifa ha fatto il suo narcotour, il sindaco ha detto che non era più il benvenuto in città. Un anno prima c’era stata una scena simile con la star del reggaeton J. Álvarez. Eppure la proposta del sindaco non è stata accolta con favore da tutti, perché la memoria pubblica è un fatto complesso, difficile da discernere e alla fine individuale. C’è chi ancora venera il “Robin Hood paisa”, pur sapendo quel che ha fatto nella sua carriera. Chi teme che costruire un “parco della memoria”, come sarebbe nelle intenzioni del sindaco, diluisca il ricordo dell’orrore. Chi vede nell’edificio Mónaco una risorsa turistica da sfruttare. E chi mischia insieme tutti questi sentimenti, tra memoria e speculazione. L’esempio più evidente di tutti è quello del figlio di Escobar, Sebastián Marroquín (il bambino cicciottello nella serie tv Netflix, per intenderci). Sebastián crescendo è diventato un testimone contro la violenza del padre, ha scritto libri per condannare il narcotraffico, ha cercato di essere d’ispirazione per evitare che l’orrore si ripeta. Ma al tempo stesso ha lanciato una linea d’abbigliamento in cui fa riferimenti espliciti e decisamente ammiccanti al mondo criminale di Pablo Escobar.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.